Versione :
Corsu

Mammazì

Traduzzione di Costanza FERRINI

Filomena apre la cassetta e prende la lettera, gira la chiave e corre ad accendere il televisore. Il cerchio di Roland Garros appare poco a poco sullo schermo, mentre lei legge l’intestazione della busta. È il laboratorio che invia i risultati delle analisi richieste dal medico di famiglia. Il semplice pensiero fa scatenare una fitta che ormai è abituata a sentire e che le punge il seno sinistro. Ma stavolta la malattia aspetterà!
La finale è già cominciata e l’irrita il fatto di essersi persa i primi momenti quando la telecamera passa e ripassa tra le file degli spettatori venuti per farsi vedere oltre che per vedere la partita. Ci sono quelli che hanno l’abitudine a mostrarsi alla telecamera: fanno finta di niente. Gli altri, il pubblico comune, ci sono quelli che si accorgono di essere filmati: per prima cosa spalancano gli occhi, poi sembra che vogliono nascondersi, premono con una mano sulla vita e con l’altra sulla bocca perché ridono, di stupore e vergogna non sapendo che figura fare. Ma la maggior parte, sono gente semplice venuti alla festa per davvero, sono contenti e fanno cenno con un gesto della mano: non si sa mai…
Filomena pensa che un altro anno non si lascerà più fregare. Non è colpa di nessuno. È la vita di tutti i giorni: il vicino che se non stai attento sconfina lentamente verso il vostro limite del giardino con la scusa di rifare la vecchia siepe arsa dall’ultimo gelo dell’inverno, la preoccupazione dei figli che ti fanno il sangue cattivo, sia perché si menano durante la ricreazione o per i brutti voti in matematica: Jean, suo marito al di fuori del lavoro sembra non vedere né sentire poco e niente. E per completare il quadro ci mancava questo ingrossamento apparso sotto il seno sinistro: il medico ha detto che non gli sembrava niente di grave, ma che bisognava analizzare ulteriormente più per sgravio di coscienza che per un rischio vero e proprio. Ma questo non è bastato a scacciare il pensiero, il dolore è lì e lei lo sente, i medici possono sbagliarsi…
Ma il prossimo anno non la fregheranno più: a Roland Garros sarà tra gli spettatori in prima fila invece di accontentarsi di seguire la competizione alla televisione.
I posti sono cari e Jean le dirà si vuol dare al lusso, ma per una volta vuole togliersi questa voglia perché il tennis è sempre stata la sua passione. Non che lei sia mai stata una sportiva, né ha mai tenuto la racchetta in mano, ma le piace vedere questa gente, che non si conosce, riunirsi e vivere insieme il tempo della festa.
Il cielo di giugno è carico di nuvole spesse. Sono tre giorni che non vogliono scatenarsi gli acquazzoni promessi dal tempo e annunciati dai bollettini meteorologici testardi. Tempo soffocante che rende ancora più faticoso il gioco atletico delle due campionesse. Ogni andirivieni della palla tesa lascia una smorfia affaticata sui visi zuppi di sudore. Le racchette si alzano e spediscono dall’altra parte. Regolari, potenti, sonore.
Filomena ha gettato la busta delle analisi e le chiavi sul tavolo del salotto. Ha tirato le tende e gli anelli tintinnano ancora sul bastone. Il salotto è silenzioso come il pubblico dello stadio. Solo i colpi sordi delle palle che colpiscono il suolo. Sono palle tirate, pensate, recuperate e proiettate con l'affanno dei petti che si svuotano d’un colpo. Gioco preciso tra Navratilovna e S. Graff: ogni gesto è studiato e non c’è modo di sbagliarsi. Filomena si siede davanti allo schermo e guarda.
Di colpo lo sguardo che si tuffa in questo gioco liscio e denso la prende. Un’impressione incerta sente allungarsi nell’ascolto di questo ritmo regolare, conosciuto, ma che deve ancora non si scopre chiaro e netto alla coscienza, qualcosa come l’immagine di tempi passati, al di là dello schermo, al di sopra della file delle teste degli spettatori. Lo sguardo si eleva fino all’ultimo gradino, fino ai panni grigi di nuvole immobili e gonfie. E è allora che appare un’immagine imprevista: La Traversa dei Platani grigia e verde come se fosse lì dinanzi a lei, immensa come non è mai stata veramente. La ragazzina, salita sulla terrazza, ha appoggiato il mento sulla ringhiera fresca e le sue mani stringono il vecchio ferro delle sbarre consumate. Vede La Traversa dall’alto, dal quinto piano sotto il tetto di tegole. Il sole infierisce e le manda le sue vampate, ma sotto i suoi piedi, giù, fino a toccare le lastre del balcone, c’è il fogliame spesso e scuro dei platani che danzano come un’onda lenta e continua. La brezza lo percorre, dolce e inclina giusto le ultime foglie intorno all’albero. Visto dall’alto, così, sembra proprio il mare che appare la domenica, tra Ziccuccia e Ziccona, quando la famiglia al completo sulla strada per Petranera, si ferma all’ombra delle ficaie di Toga.
Filomena dove sei?
In terrazza!
Scendi, che ti prendi freddo!
È sua madre che la chiama, Filomena risponde senza aspettare, altrimenti non tarderà a sentire lo sciacquettio inquieto delle ciabatte frettolose sulle mattonelle di cotto esagonali della sala da pranzo: bisogna risparmiare gli andirivieni alla mamma, bisogna farle risparmiare i passi, perché tra dentro e fuori passa più tempo a correre che a restare seduta. La ragazzina scende sullo scalino di marmo fresco dove non ci si può stendere dopo mangiato perché potrebbe arrestare la digestione e va in cucina dove la madre è affaccendata.
Sotto la mensola c’è l’altalena sistemata dal padre: una corda attaccata alle squadre che reggono il pesante asse e gettata sotto a mo’ di seggiolino la coperta dell’asse da stiro. L’apparecchio è facile a montare e facile a togliere: se arriva qualcuno la coperta si ficca in un armadio o nello stanzino. La corda basta tirarla su sulla mensola o arrotolarla intorno a un palo in modo che non stia tra i piedi.
La mamma ha messo i suoi utensili lavati sulla mensola e prepara l’occorrente sull’acquaio, oggi è giorno di bucato.
Alla ragazzina piacciono molto i giorni di bucato e canta al ritmo dell’altalena:
All’insalata
Sono ammalata
All’amanita*
sono guarita
lunedì,
martedì…
Sgrana il suo ritornello e la voce cresce con l’andirivieni delle oscillazioni, imprimendo a ogni giorno la sfilza della settimana.
Navratilovna sta prendendo il sopravvento.

Suona il campanello. Il suono è deciso e la madre dice: “Vai a aprire, è zia Veneranda”. Filomena sa che la seggiolona è di zia Veneranda e gliel’avvicina. La vecchia si appoggia con una mano e con l’altra tende il cappotto a Matteia che lo appende nel corridoio prima di servirle una tazzina di caffè.
Filomena arrangia la pellegrina della zia con gesti misurati. “Merda! C’è di che bruciarsi le budella!” dice la vecchia che mette un po’ d’acqua e beve lentamente il suo beverone per paura di bruciarsi un’altra volta. In famiglia è vietato dire parolacce: il papà e la mamma non lo tolleravano, ma per i grandi non vale la stessa regola. In più per zia Veneranda! È così per Veneranda: ogni tanto le scappa qualche parolaccia a furia di praticare la borghesia bastiese, per averla vestita per più di cinquant’anni, ne ha guadagnato un contegno da persona bene e un aspetto generale che non si accorda tanto con questa casa perbene, ma che sa del lavoro di coloro che ci vivono: un’educazione retta senza tanti figli di mamma.
È giorno di bucato per la madre di Filomena: non c’è tempo da perdere. La zia sa dove sono le cose e si è già messa a pelare i fagioli che si sgranano nella terrina.
Filomena si è rimessa a dondolare sotto la mensola, di fronte alla magra figura della vecchia sormontata da un pettine scuro che tiene la bianca capigliatura attorcigliata in chignon. È slanciata e sottile, vestita con una casacchina blu scuro e una lunga gonna che fremeva fino alle sue scarpe che luccicano. Sono passati molti anni da quando ha lasciato il suo ago di sarta e la bambina aspetta il momento in cui potrà chiederle di nuovo di raccontare le storie delle signore bastiesi per le quali cuciva. Ma Veneranda, la ragazzina l’aveva notato, raccontava più volentieri della scuola del paese al di sopra della città, il maestro che picchiava, la licenza ottenuta con i migliori voti del comune e di quanto ha pianto quando i suoi genitori l’hanno mandata a Bastia come apprendista sarta, mentre certi che lo meritavano meno di lei hanno potuto prendere il brevetto e sono delle signore ora.
A Roland Garros hanno fatto il break.
Lo sguardo d’altomare della zia viaggia sull’orizzonte della cucina che si riempie di premesse del bucato. L’acqua bolle nei due calderoni lancia controluce i suo vapori annebbiati che corrono alla finestra sul cortile. La zia incoraggia e consiglia la madre di Filomena che insapona, spazzola, lava, strizza e ammucchia i panni nella tinozza. La vecchia va a mettere la terrina dei fagioli sulla mensola. La cenere calda bolle. I giorni sono quelli corti di novembre e si aspetta quasi che sia buio per accendere. Il bucato ora volge al termine.
Il gioco di Navratilovna non è più così ardito.
Sulla mensola i fagioli si gonfiano. Zia Veneranda si alza molto spesso e va a guardarli. A poco a poco si sporge sul fondo della mensola, guarda, si gira e dice a Matteia: “A proposito Matteia, me l’avete promessa, sapete?” È come se fosse fatta, zia Veneranda, ma bisogna aspettare ancora un po’ che si faccia…ora non è ancora fatta. Non so cos’abbia!…!” e subito dopo: “Si va facendo, ma non è ancora fatta”.
Quarant’anni più tardi Filomena sente ancora questo dialogo insolito attraverso le orecchie della bambina. E Matteia si rimette a struffare (strofinare), a battere, a torcere. Zia Veneranda scuote la testa e va a sedersi. Non si fanno discorsi inutili: sono parole chiuse, appena cominciate, frasi troncate, che una o l’altra taglia su un monosillabo, sillabe appese a silenzi. Parole di gente che sanno o che non hanno il piacere di attardarsi.
A Roland Garros un fulmine ha zebrato il cielo e le nuvole pigliano la rincorsa, fuggono e scompaiono rimpiazzate da nebbie spesse. Le giocatrici sono salite alla rete. Un istante ancora e tutto sarà finito.
Laggiù l’oscurità invade ogni angolo della cucina, si stira poco a poco sulla carbonaia, sulla mensola. L'acquaio sputa fumo e la conca scoppietta. La cenere calda ha soffocato l’odore di caffè, c’è stato un momento in cui Veneranda ha detto che se ne sarebbe andata, ma sembra che non voglia decidersi. Il calore asciutto dei fornelli si mescola all’acqua della minestra di fagioli, ma un po’ più in là, sotto il rozzo asse della mensola, la bambina va e viene al ritmo del ritornello che ansima nell’oscillazione:
Vedo la luna Vecu la luna
vedo il sole Vecu lu sole
vedo nostra signora Vecu la nostra madonna
con nostro signore Cù u nostre signore
un piatto di vermicelli Un piattu di maccarò
son buoni come sono So boni cum’elli sò
La zia è restata e il giorno muore nel bagnato che schiaffeggiato dagli stracci gettati per asciugare per terra. La schiena curva della madre. Le mattonelle esagonali brillanti nel vapore grigio e i panni atturcinati che lasciano la loro corta cascata. Le oscillazioni diminuiscono e il canto si affievolisce, ripreso di tanto in tanto più forte su alcune sillabe. E poi più nulla: le corde tese e immobili, con le mani appese, un piede per terra, come per ascoltare il temporale che si avvicina, che riempie il vicolo (carrughjio), scivola sulle ardesie usate e lisce e scuote le bacine delle terrazze e i bidoni che il lattaio non ha avuto il tempo di far rientrare nel fondo del cortile. E poi il tuono che scuote il tetto a colpi di tronchese e che si allontana e l’oscillazione riprende portando con sé il canto.
Zia Veneranda si è alzata, ha abbottonato l’unico bottone che rimette in sesto i due lati del cappotto, ha messo sopra la sua pellegrina che cade uguale davanti, dietro, sulle spalle e si avvicina per guardare sulla mensola. Va e si ferma giusto rasente alle corde e anche la bambina si immobilizza a testa levata, ma senza poter vedere niente. La pesante stoffa delle gonne della vecchia fluttua tutta, proprio addosso ai suoi occhi e sale alle sue narici il profumo dei vestiti stirati di fresco. “E no, il fiore per esserci c’è, ma per farsi non è fatta! bisogna guardare alla luce. Forse domani o dopo domani…” E resta ancora un po’ così, statua di stoffa e di silenzio, e poi un attimo dopo prende congedo.

La vecchia zia se ne va. Con il pretesto di portare giù al portone il secchio dei rifiuti, Matteia scende con lei per le scale, perché al crepuscolo ci si vede più poco e, in più, al terzo piano la ringhiera delle scale è talmente rovinata che taglia come una coltella. Ma zia Veneranda è fiera: accetta che si faccia finta di niente, ma dio ne scampi a offrirle aiuto. Approfittando della situazione Filomena s’impadronisce della seggiolona e s’arrampica sul gradino più alto. Vuole vedere anche lei. Che diavolo poteva esserci sulla mensola?
Niente! Le stoviglie messe ad asciugare, la scodella dei fagioli per la minestra, la brocca dell’acqua con il suo buco di zinco fresco d’estate, quando ha fuso il ghiaccio disceso dai ghiacciai - quando nessuno la vede infila la mano chiusa e cerca di toccare il fondo del buco conico, ma non ci arriva. C’è anche la mezzaluna e nient’altro. A parte una caraffa con la réclame del Pernod non c’è altro. Quella bottiglia lì, non sa perché ma le piace molto prenderla, quando nessuno la vede e agitare quel che c’è dentro. È una bottiglia di vetro granuloso, un po’ traslucido, con le lettere gialle e blu un po’ scorticate. All’interno, sotto il fiore che ha intorno diverse tracce di residui biancastri, c’è qualcosa di torbido e come contorto con filamenti più chiari e altri più scuri. Fili giallognoli e rossastri arrotolati e stretti e niente più. Dietro, appiccicata al vetro, una pasta color terra rossa, scura che sembra nera. Filomena ha preso la caraffa in mano e la pende dolcemente. Dentro, la materia si è mossa: sotto c’è il liquido; i fili si stirano e si dissolvono nel grumo nero. Ogni tanto un granello di sostanza, come un uovo non ancora fatto, appare e s’appiccica davanti al vetro, si direbbero delle dita di tarantola che ti danno i brividi alla schiena se lo tocchi, anzi solo a guardarlo. Si attacca e si stacca lentamente, prima di arrotolarsi di nuovo nella materia un po’ agitata. La bambina non sa perché, ma le viene voglia di versare nel palmo della mano un pizzico di questa cosa misteriosa, pesante e vischiosa, ma che sente gonfia d’una vita pronta a schiudersi.
Piove a rovesci a Roland Garros. Hanno interrotto la partita.

La porta che sbatte, la madre che entra, la bambina sobbalza e scende velocissima, poi si rimette a cantare piano il suo ritornello interrotto. Mentre si dondola pensa, sconcertata…ancora un po’ e mi facevo prendere e rimproverare da mia madre. Matteia non è mica cattiva, ma si fa temere. Una volta che ha detto una cosa non c’è modo di farle cambiare parere; è vero che non ha tempo da perdere con le mille faccende di casa: bisogna sentire che rimprovero quando ha detto a Filomena che a lei l’ozio piace poco! E in questo caso si sarebbe fatta rimproverare davvero, visto che mamma aveva ordinato di non toccarla per nessun motivo. E ne valeva veramente la pena non c’è che dire: bella meraviglia una bottiglia sporca nella quale marcisce una cosa che assomiglia a un pugno di tele di ragno!
Ma c’è quest’aria indaffarata e preoccupata della vecchia zia che appena arrivata s’interessa solo della caraffa e va a guardarci come se dentro ci fosse un tesoro nascosto. Va lì, la guarda per un attimo, scuote la testa e va a domandare a Matteia. In quel momento le sole parole che la bambina capta di queste conversazioni traforate di silenzi sconfortati, mantengono un mistero ancora più grande. Veneranda si lamenta: “Non si fa bene…c’è qualcosa che non va…non è pronta…temo che a forza di aspettare…” Con le orecchie drizzate Filomena sente Matteia incoraggiarla e si direbbe che voglia farla ragionare. Il tono della madre la sorprende, di solito sono i più anziani a dire le parole di conforto ai giovani. Eppure Veneranda ci sta con la testa nonostante la sua età. Non come quella rimbambita di zia Agatona che raduna le ragazzine più grandi chiude la porta, solleva le sue gonne immense come tende e fa vedere loro ciò che non si dovrebbe. Le grandi, Filomena le ha sentite ridere e, guardando dal buco della serratura l’ha vista anche lei. No, zia Veneranda, ha tutti i suoi sensi, ma Matteia deve avere più domestichezza con le cose di casa. La bambina la sentì dire alla vecchia: “Di madri ce ne sono di grosse e di più piccole…la vostra, zia, lasciatela ingrossare.”
Filomena ha frenato l’altalena con la punta dei piedi: la madre della vecchia zia?
Le madri piccole e le altre grandi! Non ha mai sentito simili spropositi, eppure non si direbbe che le due donne abbiano voglia di scherzare. “Bisogna saper aspettare, zia…la natura sa aspettare…Non ve la prendete, avrete la vostra parte. Vi terrò la più grossa. Venerà, basta non toccarla.” Lei diceva che bisognava aspettare, non agitarsi, lasciar fare.. Soltanto sapendo aspettare che si faccia a modo suo, con il proprio ritmo, senza precipitare nulla, ché la cosa accada quando la natura vuole. D’altronde era la materia che doveva ingrossare e allora quando la materia era veramente fatta è più bella e si conserva per anni e anni, basta dividerla. Veneranda si spazientiva quantunque, Filomena si accorse, che Matteia le parlava sempre più come a un bambino capriccioso che si vuol calmare.
I giorni passavano e la bambina non ci fece più caso. Si ricorda soltanto che, quando Veneranda veniva a trovarle, sembrava angosciata. Matteia abbandonava le sue occupazioni sulla tela cerata e prendeva la vecchia sottobraccio e tutt’e due se ne andavano a guardare ciò che accadeva sulla mensola. La lunga gonna della vecchia e il grembiale della madre la toccavano quasi e lei ne era divertita. Andando e venendo al ritmo regolare delle oscillazioni, toccava con la punta delle dita tese le pieghe pesanti del vestito di Veneranda. Faceva come se accarezzasse le tende del salone. La stoffa pareva inamidata, anche se era liscia e morbida; ad ogni pressione delle dita resisteva un pochino e poi la lasciava con il leggerissimo fruscio della fuga d’un topolino. Il grembiale di sua madre era di tela grossa e sempre umido degli schizzi d’acqua gettata nell’acquaio: non faceva né la stessa impressione, né lo stesso rumore. Filomena chiudeva gli occhi e ripeteva a memoria due parole che faceva cantare scandite dal dondolio:
“mamma zia…mammazia…mammazì…mammazì”
e toccava con la punta delle dita tese i vestiti delle due donne.
Quanto tempo è potuto trascorrere fra quei giorni dell’attesa e quello in cui Matteia appena Veneranda entrò gli diede un boccale in cui aveva raccolto il più grosso gomitolo di materia? A Filomena oggi sembra un’eternità. C’era l’aceto e, all’interno girava, l’uovo scuro e indeciso della madre. Veneranda ricevette la cosa come se si trattasse del Bambin Gesù e quando si congedò, poco dopo, abbracciò la madre e la bambina, lasciandole stupefatte, perché abitualmente la vecchia non era troppo propensa ai baci.

Filomena si domanda come questo ricordo sbarchi così, senza motivo, nel corso di una vita cinquantenne, che anche se immune da tragedie, porta comunque il suo lotto di momenti sia felici che amari più degni di essere ricordati di questa polvere di memoria punteggiata di scene più chiare, come il pettine scuro che usciva nella capigliatura nebulosa della vecchia zia! Da quell’infanzia che si dondolava sotto la mensola fino alla sistemazione qualche decina d’anni più tardi in questa villa nei dintorni di Parigi, frutto di tanto risparmio e pene non ci sarebbe stato nient’altro da ricordare? Il ritorno un mese al paese e i giochi pesanti con i cugini e le cugine infervorati dall’età, l’ingresso tremante a scuola, la sirena catarrosa del grosso traghetto in partenza, il tuffo nella città immensa e la difficoltà a tessere anno dopo anno un’altra vita, diversa da quella campata nella casa sopra La Traversa dei Platani.
Le ingiurie e gli incanti che vi offrono i giorni della vita, le nascite benvenute, le partecipazioni ai matrimoni e i telegrammi dei funerali ai quali non ci si può recare perché l’isola è lontana e non si osa dire che i soldi sono contati. Ce ne dovrebbero essere parecchi di episodi così nella sua memoria eppure gli ritorna sempre questa piccola cosa di così poca importanza che si stupisce di vederla riapparire con una precisione che non ha mai avuto in realtà.
La vecchia zia era morta la sera stessa che aveva portato con sé il vasetto e i suoi baci insoliti, avevano assunto, nella mente di Filomena, un significato particolare. Riflettendoci, da allora, li aveva visti come un avvertimento. Forse il segno di un addio discreto, da una che sa la vita e la morte alle altre che l’apprendono. Altrimenti non c’era veramente di che testimoniare una così grande riconoscenza verso Matteia per un bicchiere di aceto e la sua madre carina fatta sopra.
Era dunque tutto lì questa mamma del mistero, la madre, la mamma dell’aceto…La prima volta che Filomena ha rivisto questa scena nascosta nella sua infanzia è stata togliendo dei pannolini dopo la nascita della mia prima figlia. Era ritornata a casa da pochi giorni e stava sistemando la cucina. Aprendo la credenza fu investita d’un tratto dall’odore acidulo della bottiglia lasciata aperta da Jean che ancora oggi non ha ancora imparato nulla delle cose di casa. L’odore si trascinava il ricordo di questa scena che non sapeva nemmeno di aver vissuto. Le riviene in mente la pagina del dizionario regalato dallo zio celibe, istitutore a Marsiglia e che aveva portato il volume dicendo con una generosità appena enfatica: “L’ho comprato per tutti voi, abbiatene cura, l’ho pagato caro”. Fra tante informazioni preziose c’era anche quella di come il vino diventa aceto. Ancora oggi Filomena sa quasi a memoria la definizione che aveva letta come la rivelazione di un segreto. Diceva che l’aceto per formarsi ha necessità del contatto con l’aria e che l’acidità è l’ossidazione dell’alcool contenuto nel vino che lo fa. Questa ossidazione non può che farsi se non in presenza dell’ossigeno atmosferico. E ciononostante l’aria non basta per acidificare l’alcool. Se l’alcool è puro, che contenga acqua o meno, l’ossigeno non gli fa subire alcuna alterazione. Perché insorgano i fenomeni di ossidazione è necessaria la presenza di un fermento, d’un lievito, per così dire. Per l’aceto questo lievito è un crittogama microscopico al quale Pasteur ha dato il nome di micoderma dell’aceto “mycoderma aceti” diceva il libro sapiente. Questo fungo dell’aceto agisce provocando la fissazione dell’ossigeno dell’aria sull’alcool in modo da trasformarlo in acido acetico. Prende da lì il nome comune di “madre dell’aceto”.
Ed era quella madre lì, promessa da sua mamma, che mandava sua zia fuori di sé e che aveva stupefatto la bambina. La spiegazione tecnica era bella e buona ma non diceva tutto. Filomena non ha mai saputo perché a zia Veneranda fosse presa voglia della madre dell’aceto con una passione che le aveva riempito gli ultimi giorni della sua vita. Non a lungo, visto che era morta la sera stessa che aveva portato con sé il vasetto datole da Matteia. Si ricorda anche che il giorno in cui si accorse dell’ingrossamento sotto il seno sinistro all’improvviso rivide la grande pagina del dizionario sulla quale spiccavano in grassetto le parole del fungo “mycoderma aceti”. Ha pensato che fosse una strana idea e non ha osato parlarne né con Jean né con le figliole.
La partita è ripresa in un Roland Garros assolato. Filomena guarda lo schermo. Sul tavolo del salotto ci sono le chiavi e la busta delle analisi. La palla tesa viaggia da una all’altra. Mammazì…Mammazì.

 

* nella rima originale Au celeri/ Je suis guérie