3 - Talianu Le cavallette.
Prosa
Le cavallette. (traduzzione da G.M.COMITI)
La vicenda che vi voglio raccontare è accaduta qualche tempo dopo la guerra, negli anni ‘40.
Ero un ragazzino di otto o nove anni, ma quel giorno mi è rimasto impresso come se fosse oggi.
- Le cavallette! Le cavallette!
La notizia era corsa come un rombo che risuonava e si spargeva da un podere all’altro. Di qua e di là se ne sentivano delle grosse, la voce pubblica portava ogni giorno fatti sempre più straordinari. Si parlava d’un luogo in cui le cavallette erano arrivate a migliaia, a tal punto che avevano oscurato il sole nel cuore di mezzogiorno, un altro raccontava come un incubo la fine di una foresta defoliata in un attimo, i maledetti insetti ingoiandosi foglie e germogli strada facendo.
Per dirvi se le cose andavano peggiorando, certi avevano sentito dire che lì dietro la montagna, da qualche giorno, piovevano cavallette.
Diamine di tempesta!
Si diceva anche che il treno, la nostra « micheline », non era riuscita a vincere la salita di Palasca da quanto si era spolmonata a macinare quella peste sulla ferrovia.
Quella porcheria di cavallette tornava spesso nelle conversazioni degli uomini seduti al fresco sotto all’olmo, uno aveva anche trovato un giornale vecchio che parlava dei danneggiamenti, ma finora le vicende interessavano soltanto la Francia, dunque... ad ognuno i propri fastidi. Ma quando si seppe che i danneggiamenti di quella detestabile specie toccavano il Polaschese, allora le cose diventavano serie...
Quando il nonno sentì la notizia gli cascarono le braccia, ma non solo a lui dato che tutto il paese era in subbuglio.
Bisogna dire che ai primi di luglio tutti gli orti erano seminati e nel più bel rigoglio.
In modo che ogni famiglia si assicurava in quella stagione benedetta le sue belle provviste per tutto l’anno.
Mio nonno era fiero del suo orto come un re del suo palazzo. Tutto doveva essere sempre in ordine: gli appezzamenti arati con arte e senza un filo d’erba, le pergole potate secondo le regole e secondo la vite, gli alberi sempre cimati per non dare ombra alla verdura, e gli arnesi sempre appesi al loro posto.
A noi altri bambini, eravamo due con mio cugino di Tunisia, ci davano l’incarico, appena arrivati nel nostro orto di pianura, di accompagnare gli asini al pascolo in riva al fiume, poi dirigevamo l’acqua verso il serbatoio; avevamo pochissimo tempo per un tuffo nella pozzanghera e bisognava correre perchè l’acqua non doveva arrivare nell’orto prima di noi.
A quel punto, mentre il nonno si affaccendava altrove, a spuntare i pomodori che facevano troppi germogli, a uccidere i bruchi che si mangiavano i cavoli, o a seguire le tracce del grillotalpa nella piantata delle patate, noi annacquavamo. Ma il nonno, sott’occhio, stava sempre attento a cosa fecevamo. Dio, quel giorno che mio cugino di Tunisia si era dimenticato di raddrizzare l’acqua e aveva allagato il sementaio!
« Ma torcimi iss’acqua » gridava il nonno... ma quello, il corso non lo capiva per nulla.
« Strangola l’acqua » provava a tradurre il nonno « non vedi che la terra è inzuppata... »
E mio cugino di Tunisia, che non aveva l’anima dell’ ortolano, ancora più perso nella perplessità di quell’ordine nuovo, se ne stava sbigottito senza far niente.
Dovevo trovare io il modo di mettere la paola fine al quel conflitto linguistico e ortolano...
Senza voler perdere troppo il filo del mio racconto, ho voluto dire in corte parole quel che rappresentava un orto a quei tempi.
Ma torniamo su quella razzaccia devastatrice delle cavallette.
L’intero paese era mobilitato, sindaco in testa con donne, uomini, vecchi e bambini per darsi una mano e provare a proteggere il loro bene o quello del vicino se non era stato ancora danneggiato. Dal capoluogo avevano distribuito crusca avvelenata; quella mistura faceva il suo effetto, ma le cavallette erano più della crusca.
Più si tirava avanti e più le cose giravano male, le notizie dal fronte erano cattivissime. Secondo una staffetta mandata dalle parti di Fiume Reginu il nemico si preparava ad entrare nella valle.
Se veniva ad essere verificata la cosa, allora una vera catastrofe si preparava per il paese. Fiume Reginu era come una mamma, e gli orti che correvano lungo le sue rive erano i suoi figli che le stavano appoppati, e così, da una stagione all’altra, tra frutta e verdura, ogni famiglia ci guadagnava il suo vitto.
Occorreva, senza perdere tempo, organizzare la difesa, se no l’inverno sarebbe stato dei più lunghi...
Volendo ognuno rendersi conto della situazione, fu nel cuor di mezzogiorno un movimento generale di truppe verso la pianura. Il paese si spopolava.
Il nostro di orto, era di quelli più lontani, e nonno, mentra si recava al ponte Sant’Andria, ci aveva incaricato di andare a mettere il basto a Grisgellu ed a Murinu. Così la nonna, mai stanca, e che aveva appena finito un’infornata di pane, sarebbe potuta scendere a cavallo, dato che voleva partecipare anche lei all’ordine di battaglia.
Sembrava che anche gli asini fossero consci del malanno che ci abbatteva, e non occorreva spingerli per far loro allungare il passo.
Forse conoscevano anche loro il proverbio che dice: « del bene tutti ne stanno bene », e ne avevano concluso che del male tutti ne starebbero male, e gli asini per primi.
Noi, dietro, seguivamo al trotto porcino. In un lampo oltrepassavamo la gola di Tarra Rossa per giungere sui primi appezzamenti seminati.
Un vero disastro, si sentivano le grida e le bestemmie degli uomini, i sospiri delle donne, i pianti e le chiamate dei bambini, tutta la valle risuonava d’uno schiamazzo potente e confuso, nato da una lotta disperata.
La gente lottava con ardore a colpi di ramaglie per provare a salvare le più belle piantagioni, ma le cavallette si levavano da un posto per abbattersi su di un altro, e bisognava sempre ricominciare.
Non avevamo nemmeno il tempo di riposarci un pochettino per dire due parole di consolazione perché anche noi ci aspettavamo il peggio.
Per noi era più del peggio! Di sicuro le cavallette avevano mandato al ponte Sant’Andria le migliori delle loro truppe!
C’era da vedere come si buttavano sulla piccola piantagione dei fagiolini, loro sì se ne intendevano di raccolta! E nonno con la sua frasca di leccio, solo davanti ad un esercito, si dimenava, correndo di qua e di là, battendosi a corpo morto.
Infatti, per lui, era ora di vedere arrivare le truppe fresche in rinforzo. Eccoci dunque senza preparazione, entrati direttamente nel conflitto sotto gli ordini del generale Petrupà (così si chiamava mio nonno). Sia per la qualità del comando, sia per la volontà delle sue truppe, sembrava possibile rimanere padroni del terreno, avremmo avuto dopo il tempo di quantificare i danni. Ma per disgrazia, sopra l’orto ci correva una stradina che portava fino al torchio, e quando passava il brutto vecchio camion, il « tarabattattà » come lo chiamava il nonno, tutte le cavallette che stavano sulla stradina si buttavano giù nell’orto.
Delle bestemmie che urlava in quel momento il nonno, alle cavallette quanto al « tarabattattà », non ve ne parlo, e se dovessero capitare, camion e cavallette avrebbero poco da vivere!
Senza dubbio aveva bisogno di sfogarsi ma il nonno, quando veniva sul capitolo delle bestemmie, più nessuno lo fermava e continuava quand’anche il cielo gli dovesse cadere sulla testa. La nonna provava a dirgli « Ma che vergogna, se ti sentono gli altri! » Niente da fare! Era come se domandasse la luna.
Ce n’era per tutti; di certo che il più di quei paternostri un po’ particolari si rivolgevano alle cavallette, ma ogni tanto alcuni erano dedicati alla religione, e non se la cavavano né Cristi, né Madonne, né Santi, né Altari, né Tabernacoli. Quando dico che non se la cavava nemmeno un santo, voglio tornare un po’ indietro, perché il nonno non avrebbe mai offeso San Rocco, era il santo del paese e non si doveva toccare. Per quanto tocca San Pietro, San Giacomo e San Domenico, i santi dei paesi vicini, oggi penso che dolgano loro sempre le orecchie!
Nonostante i tre giorni che rappresentavano tutta la sua scolarità, in quella circostanza nonno aveva quel dono naturale di snocciolare con arte una litania di proposizioni, una più forte di quell’altra. C’era da sentire l’intreccio sottile delle bestemmie in cui la principale andava a legarsi al resto della frase, saltando da subordinazione a coordinazione senza riprender fiato. E non vi parlo della ricchezza lessicale del discorso. Francamente, senza tener conto del contenuto, di quella lingua che schioccava le sue parole come le frustate, un Ghjacumu Thiers nascosto nel fondo dell’orto ne avrebbe fatto le sue delizie. Bisogna dire che in quei tempi, la gramigna diglossica non si era ancora radicata bene...
Colui con cui se la prendeva di più, mio nonno, era proprio Gesù Cristo. Come mai, un campagnolo come Lui, direi anche un vignaiuolo, dato che il prete all’altare parlava sempre delle vigne del Signore e del sangue di Cristo , quando presentava il calice pieno di vino, un campagnolo come Lui dunque, non sollevava nemmeno un ditino e ci lasciava tormentare dalla razza delle cavallette e dei grilli.
« Allora che si spacchino le porte delle cantine del paradiso, che si crepino le doghe, che si rompano i cerchioni e che saltino i cocchiumi da far svuotare botti e barilotti, poi che precipitino per le sante scalinate i barili pieni di angeli, con Cristo a fare il tappo... »
Ecco un piccolo frammento delle frasi che lasciava andare mio nonno come una sfida alle potenze divine sospettate di tradimento. Il tutto, molto più lungo, usciva netto, detto in un soffio unito e sodo, che martellava le diverse proposte. La nonna, poveretta, spaventata, non si fermava di fare segni di croce, e nello stesso tempo si raccomandava alla Vergine Maria e a tutti i santi, soprattutto a San Rocco.
Nel frattempo, le cavallette, alle quali il nonno aveva promesso nelle sue bestemmie di far piovere sette giorni petrolio e un giorno fuoco per abbrustolirle, le cavallette nonostante i nostri sforzi compivano la loro brutta opera. Adesso, della piantagione dei fagiolini rimaneva solo qualche povero mozzicone e dei pomodori restavano appena i fusti rigidi come pali in una pianura deserta.
L’orto del ponte Sant’Andria, terra di dovizia e di verdura, era diventato netto come il palmo della mano.
Era venuto il tempo della capitolazione.
Già il nonno era uscito sul cammino, ed arrivato al cancello non si era nemmeno girato per dare un’occhiata come al solito. Forse per lui il disastro che lasciava dietro di sé gli ricordava troppo, da un invasore ad un altro, altri luoghi chiamati « chemin des dames... »
Ad un tratto, era sceso nella valle un silenzio strano ed angoscioso.
Poi, piano piano, si sentì un fischietto che sembrava venisse dall’orto di Eugenio, un po’ più giù del nostro. E guarda che ti guarda, era lui, e si occupava come al solito, il nostro vicino! Giusto, aveva caricato la sua pipa e, tra due tirate, se la fischiava sul verso della canzone della pipa, per l’appunto.
Nonno non ci voleva neanche credere: « ma come, la contrada è rovinata e quello se la fischia » ... « la mia pipa era di bossolo l’ho comprata a Bastia »... arrivi pure la nave bianca! Qui c’è gente da prendere! »
Oppure ... che abbia scoperto un astuzia per salvare la sua roba, Eugenio. Ne era capace!
Si deve dire che Eugenio era un uomo di originalità e di mistero. Tutti sapevano che chiacchierava col suo somaro, come se fosse una persona, era capace di far rientrare l’animale da solo a casa mentre lui prendeva un’altra strada, e quand’era arrivato a casa aspettava con pazienza che gli si togliesse il basto. Meglio, all’ora dello spuntino nell’orto, nella bella stagione, una biscia veniva a fargli compagnia ed a guadagnarci qualche pezzetto di pane.
Uomo di buon consiglio ma senza pretese, le sue risposte sempre pertinenti e spesso spiritose erano proverbiali. Ad una persona che si stupiva della bellezza delle sue piantagioni e che non la smetteva di ripetere: « ma sono miracoli, ma sono miracoli... » le rispondeva: « i miracoli, amico mio, li fa il letame... »
Un’altra volta, dopo una notte di tempesta di quelle tremende, la pergola dei suoi vicini di casa ne aveva preso la sua parte, e mentre il marito, brontolando e bestemmiando, provava a tener ritto quel che non era stato messo giù dal vento, la moglie chiamando Eugenio a far da testimone, diceva: « è forse Nostro Signore che lo voleva così... che ne pensate Eugenio? »
« Ne penso, rispose Eugenio, che il Signore... così... lo so fare anch’io... »
Dunque con Eugenio c’era da aspettarsele tutte, il più facile era di avvicinarsi.
Giunti a vedere l’orto da sopra, avevamo capito subito che il battaglione delle cavallette aveva compiuto anche da lui la sua opera di distruzione.
Rivolgendosi al nonno Eugenio disse: « le forze in presenza erano troppo impari ». Giustificava, in corte parole, il fatto che non aveva nemmeno provato a lottare. Poi, sempre chiacchierando, dirigeva l’acqua del canale verso gli appezzamenti. Eppure, ormai non ci cresceva più nemmeno un filo d’erba!
Il nonno lo guardava fare, sbigottito, pensando che davvero Eugenio non aveva tutta la sua testa.
- Ma che cosa fai, Eugé? Non c’è più nulla da annacquare..
- Caro Petrupà, hanno mangiato bene, adesso bisogna farle bere!
Fu quella la risposta di Eugenio.
Nei fatti, aveva capito prima degli altri che era meglio mantenere la morbidezza della terra del suo orto per poterlo arare e seminare di nuovo...
Le sconfitte del presente non impedivano al savio di preparare le raccolte del futuro.
Fu quella la mia prima, e di sicuro la mia più bella lezione di filosofia.
E non l’ho mai dimenticata...