ARCHIVIO DEI DIARI

Shlomo Venezia fu arrestato (sequestrato) con la famiglia (composta, oltre a lui, da sua madre, suo fratello e dalle sue tre sorelle) a Salonicco nel marzo del 1944 e deportato presso il campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, uno dei tre campi principali che componevano il complesso di Auschwitz. Durante la selezione operata dai medici nazisti per separare i deportati considerati abili al lavoro da quelli «inutili», immediatamente inviati alle camere a gas, Venezia si salvò insieme al fratello, la sorella maggiore (che rivedrà solamente nel 1957) e due cugini. Venezia fu successivamente sottoposto al tipico trattamento subito dai deportati ad Auschwitz: rasatura, doccia, tatuazione del numero sull'avambraccio sinistro (il suo era il numero 182727), vestizione con gli abiti da internato. Terminate le operazioni di «inserimento burocratico», Venezia fu rinchiuso in un'apposita e isolata sezione del campo per passare i 40 giorni del periodo di «quarantena», che avrebbe dovuto impedire - secondo le autorità tedesche del campo - la diffusione di epidemie all'interno del lager.
Dopo soli 20 giorni di «quarantena» Venezia fu assegnato al Sonderkommando di uno dei grandi crematori di Birkenau, composto principalmente da giovani prigionieri di robusta costituzione e in buone condizioni fisiche, a causa dello sforzo fisico richiesto dal lavoro: l'eliminazione delle «prove» di quello che stava avvenendo.
Come ebbe a dire Primo Levi - deportato presso il campo di Monowitz e autore di Se questo è un uomo - l'istituzione di queste squadre speciali rappresentò il più grave crimine del nazionalsocialismo, perché le SS, attraverso il Sonderkommando, cercarono di scaricare (o quantomeno condividere) il crimine sulle vittime stesse.
Shlomo Venezia divenne tra i più importanti portavoce della tragedia dell'Olocausto solo dopo più di quarant'anni dalla fine della tragica esperienza del Lager. La dura realtà vissuta nel Sonderkommando lo portò a una grave sofferenza interiore e a un silenzio atroce, perché non era stato creduto, perché nessuno voleva ascoltare gli ex deportati (come raccontano la vicenda editoriale di "Se questo è un uomo" di Primo Levi o la testimonianza di Settimia Spizzichino nel suo "Gli anni rubati") e anche per il senso di colpa tremendo, che caratterizzò la vita dei pochi sopravvissuti e in particolare per il lavoro da lui svolto nel Lager. Il dovere della memoria lo ha portato dapprima a superare il silenzio - nella metà degli anni Novanta - cominciando a raccontare in pubblico, e soprattutto ai più giovani, quanto aveva sofferto fino ad arrivare alla pubblicazione di "Sonderkommando Auschwitz". Ospite in trasmissioni televisive, nelle scuole, nelle manifestazioni a ricordo della Shoah, egli rivolge il suo interesse ai giovani come portavoci futuri dell'immane tragedia che si abbatté sull'Europa tra il 1940 e il 1945.

 

Mort à l'âge de 89 ans le 30 septembre 2012, à Rome, d'une insuffisance respiratoire, lointaine séquelle d'une tuberculose contractée en déportation, Shlomo Venezia n'était pas un ancien déporté comme les autres : il avait fait partie, à Auschwitz-Birkenau, des unités spéciales vouées au travail forcé dans les chambres à gaz, les Sonderkommandos. Au nombre de quelques centaines simultanément, leurs membres étaient eux-mêmes éliminés, généralement au bout de trois mois, et remplacés par de nouvelles équipes. Non seulement du fait de leur épuisement, mais parce que les nazis préféraient effacer les possibles traces de leur forfait.
Seul un improbable enchaînement de circonstances, au moment où l'approche des troupes alliées avait déréglé cette minutieuse industrie de mort, a permis que Schlomo Venezia survive et témoigne, avec quelques autres miraculés.
Après la guerre, pourtant, il s'était tu, impuissant à faire partager l'indicible et ressentant amèrement, comme beaucoup d'anciens déportés, que sa parole pouvait être dérangeante dans l'euphorie de la paix retrouvée. Ce n'est qu'au bout de quarante ans, en 2006, que, stimulé aussi par l'émergence de discours négationnistes, il avait pu se délier de son mutisme. Le résultat fut un livre publié l'année : Sonderkommando, dans l'enfer des chambres à gaz (Albin Michel), issu d'un dialogue avec Béatrice Prasquier, aidée par l'historien Marcello Pezzetti. Glaçant par les événements qu'il relate mais captivant par la qualité du récit, cet ouvrage, préfacé par Simone Veil, a depuis été traduit en 19 langues. Schlomo Venezia, né à Salonique, en Grèce, le 29 décembre 1923, y déroule le fil de sa vie avant et pendant son expérience extrême.

En savoir plus sur http://www.lemonde.fr/disparitions/article/2012/10/16/schlomo-venezia-te...
 

Nel Giorno della memoria

Era l'inizio del 1945. Soffiava un vento freddo, secco, sferzante.
La terra era gelida. La guerra stava quasi per finire, era soltanto questione di tempo, e mentre i tedeschi cominciavano a perdere e a ritirarsi verso ovest, l'Armata Rossa, impetuosamente, avanzava sempre più verso il campo e la nostra liberazione sembrava ormai prossima, si sentiva nell'aria. Finalmente l'Umanità non restava più a guardare, si stava ricordando di noi, non ci aveva abbandonato, non ci lasciava lì a morire.
Dappertutto si vedevano tedeschi preoccupati, inaspriti: e più loro diventavano nervosi più noi speravamo nella libertà.Anche la disciplina diminuiva di giorno in giorno.
Il "grande" Terzo Reich era ormai sul punto di crollare e pertanto era necessario nascondere le tracce dello sterminio, del genocidio commesso. Nessuno doveva sapere. Puntualmente, però, continuavano ad arrivare carri stipati di cadaveri dai sottocampi vicini, già evacuati; dovevamo noi del Sonderkommando di Birkenau liberarci di loro.
Sotterrarli nelle fosse comuni, in tedesco Birkenwald, non era più possibile, li avrebbero senz'altro scoperti. I tedeschi ci obbligarono, quindi, a fare funzionare i forni fino alla fine, fin quando non fosse stato cremato l'ultimo corpo. Una sera, al tramonto, eravamo quasi al termine del nostro penoso travaglio, con velocità misteriosa e fulminea si propagò fra noi la notizia che avremmo dovuto smantellare i crematori.
La notizia provocò un certo subbuglio, ma non avevamo più tempo da perdere, dovevamo fare in fretta, l'Armata Rossa era quasi alle porte. I turni di lavoro per la distruzione d'ogni "pezzo" che tesse testimoniare i crimini nazisti diventarono massacranti, però alla fine siamo riusciti a svolgere anche questo doloroso e snervante incarico ordinato dai nostri capi. Finalmente ci portarono in una baracca, potevamo riposare.
Prima di andar via le SS ci minacciarono, ci ordinarono di non muoverci per nessuna ragione, di non uscire e di non parlare; in caso contrario avrebbero sparato su di noi senza pietà.
Presto sarebbero tornati a prenderci per portarci via. Ma dove ci avrebbero condotto? Noi non lo sapevamo, certo non potevamo aspettarci di essere liberati. Fummo subito presi dal panico, temevamo che volessero fucilarci e così, appena le guardie si furono allontanate, invece di rimanere nelle baracche, come ci era stato ordinato, uscimmo di corsa mischiandoci agli altri. Dentro rimasero soltanto quelli che non erano più in grado di reggersi in piedi e i moribondi che da un momento all'altro avrebbero finito di soffrire. Abbiamo percorso circa tre chilometri e mezzo per andare da Birkenau ad Auschwitz. Era la fredda e nervosa sera del 17 gennaio del 1945. Era un inverno rigidissimo, potrei dire quasi glaciale. Quando siamo arrivati noi stavano già evacuando una fila lunghissima di prigionieri, tutti messi in colonna, all'aperto, oltre il cancello del lager, tutti diretti a Wodzislaw Slaski, distante 63 km. Senza esitazione ci siamo uniti a loro. In mezzo a tutta quella gente nessuno ci riconosceva; finalmente non facevamo più parte del Sonderkommando, non eravamo più quelli che potevamo testimoniare i crimini nazisti, ma eravamo dei comuni prigionieri. Appena uscii dal cancello guardai con gioia il paesaggio, gli alberi innevati, il cielo "bianco", rividi il mondo attorno a me. Mi sentivo diverso, libero, uomo tra gli uomini, quando svenni per la felicità. D'un tratto ritrovai l'energia, capivo che potevo, anzi dovevo farcela, bisognava solo avere ancora un attimo di pazienza e continuare ad avere voglia di vivere, di ricominciare. Solo questo contava: credere ancora nella vita. Nel giro di qualche ora l'interminabile colonna si mosse e tutti schierati, come delle marionette, cominciammo a camminare prima piano e poi sempre più forte, ci obbligarono a correre follemente, perché bisognava allontanarsi il più possibile dalle truppe russe che puntavano in direzione del campo e non dovevano trovarci in vita.
Si trattava di un esodo disastroso, di un'altra ecatombe. Il campo fu poi liberato il 27 gennaio 1945, era un sabato.

 

testimonianza tratta dalle memorie di Shlomo Venezia
"L'abisso e il silenzio" Edizioni
Premio LiberEtà