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Lo scheletro francese

Giallo per ragazzi

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Antoni Arca e la classe III A

anni scolastici 1998-2000
Scuola Media num. 3 - Alghero
Coordinamento didattico: Maria Pina Sanna

Un proverbe français dit que “ les voyages forment la jeunesse ” : je serais étonné qu’il n’ait pas d’équivalent en italien ou en sarde ! Je ne connais pas grand monde qui puisse s’opposer à cette évidence, encore qu’un élargissement de la portée de ce dicton s’impose : on ne cesse jamais d’apprendre, de s’informer, de s’instruire et, au bout du compte, de se former.
Le voyage est donc nécessaire aux enfants, aux élèves des écoles, aux étudiants, aux jeunes en général. Ils y découvrent ce qui n’a pas de prix : l’expérience de l’altérité, la complexité de l’identité, la conscience des limites, la nécessaire prise en considération de la diversité des règles sociales et politiques, la relativité des codes et des cultures, les changements de climat, de décor et de rythmes. Dans un parcours scolaire où le voyage représentera en général l’exception, nous, enseignants et éducateurs, nous devons toujours veiller à inscrire dans l’expérience et le souvenir des jeunes l’empreinte de ces caractères et à leur en montrer l’irremplaçable bénéfice.

Cette conscience, je l’ai lue dans le roman policier que notre collègue Antoni ARCA a mis en forme avec ses élèves. Il suffira de relire chacun des épisodes pour remarquer combien les différentes étapes de la narration, les personnages, les lieux, les silhouettes entrevues et les sentiments suggérés par un détail descriptif ou une péripétie de l’action mettent au premier plan le sentiment de l’extranéité pour en faire une dominante du climat romanesque. Or la relation de cette extranéité à l’étrangeté de faits et gestes perçus et racontés à travers l’imagination apeurée des enfants est ici constitutive de la fiction. Déplaçons l’histoire et replongeons-la dans le cadre familier: il y a fort à penser que les ressorts de la fiction seraient plus lâches et l’ensemble plus conventionnel. L’intrigue est en effet d’autant plus tendue et le mystère plus épais que l’ensemble de la situation est plus insolite. L’introduction de mots ou séquences en français -formules de salutations, toponymes, institutions, etc...- concourt elle aussi à renforcer la mise à distance du cadre évoqué et, par voie de conséquence, l’atmosphère inquiétante de la fiction. Etrangeté et hostilité ne font finalement plus qu’un.
Il suffit alors d’un élément ténu (une porte cochère, une présence insolite dans un jardin, le double sens d’une phrase banale) pour que nous basculions dans l’univers le plus inquiétant.

Il suffit également de très peu de chose pour retourner au quotidien le plus rassurant et remarquer que la sombre trame de nos angoisses n’était due qu’à une imagination d’autant plus prompte à se donner libre cours que nous étions tirés de nos habitudes et de nos conformismes.
Ainsi, lorsque se lève le voile des apparences et que le lecteur apprend, avec les personnages de l’histoire, que tout n’était que méprise due à l’inquiétude et à la méfiance, la conclusion s’impose : voyageons plus souvent et faisons de l’étranger notre voisin !

Ghjacumu Thiers

Prologo

1. Roberta, Laura e io siamo tre studentesse di 16 anni che frequentano il Liceo Scientifico. Come premio per la promozione, ci è stato regalato un viaggio in Francia; ma non a Parigi, bensì in una petit ville in cui vivono gli zii di Laura.
A me era piaciuta molto l'idea di quel viaggio, ma sentivo che ci sarebbe capitato qualcosa, come quella volta che andai a Roma con tutta la mia famiglia e all'aeroporto fummo accusati di avere preso i bagagli di un altro passeggero; impiegammo delle ore a convincerli che non ne sapevamo nulla.
In Francia ci andammo con un volo diretto da Alghero a Parigi, e, benché fossi felice, non negherò che oltre al timore derivato dall'esperienza precedente avevo la solita fifa del volo, forte­mente aggravata dall'incredibile numero di incidenti aerei che erano accaduti nelle ultime settimane.
Comunque, dopo la consegna dei bagagli e gli abbracci ai geni­tori, partimmo. Ci toccò un posto in coda all'aereo e volammo stordite dall'assordante rumore dei motori. Per fortuna ero ac­canto all'oblò e vidi le nuvole e sotto di me il sole che nasceva sullo sfondo del golfo d’Alghero. Chiusi gli occhi. Atterrammo al Royssi Charles de Gaulle poco prima di mezzogiorno. Come me, anche Roberta e Laura non stavano più nella pelle. Fummo tra le prime a scendere sull'immensa pista assolata. Poi, in pochi minuti, l'autobus aero­portuale ci portò ai cancelli della dogana. Via, tutti giù a riti­rare i bagagli. C'è un mucchio di gente maleducata, a questo mondo, anche in Francia. Nessuno che ci lasciasse prendere un car­rello.
- È passato così tanto tempo dall'ultima volta che ho visto i miei zii, che non so se li riconoscerò - disse Laura.
- Se non li riconoscerai tu, ti riconosceranno loro! - risposi sgarbata, come se fosse colpa di Laura quel mio improvviso nervo­sismo.
Finalmente, dopo dieci minuti buoni di attesa, il nastro tra­sportatore ci riconsegnò i bagagli e potemmo uscire. Gli zii di Laura erano lì ad aspettarci e non ci fu nessun problema per il mutuo riconoscimento. Mentre lei abbracciava i parenti uno dopo l'altro, noi ci presentammo.
- Enchantée!
Francesco e Silvia, gli zii, erano due persone di mezza età, gentili, affabili e con due belle facce da sardi emigrati in Fran­cia da tanto tempo. Laura ci aveva già informati della loro sto­ria. Erano due algheresi come noi che, subito dopo il matrimonio, si erano trasferiti in Francia per motivi di lavoro. E, adesso che erano pensionati, si sentivano troppo francesi per ritornare a casa.
Uscimmo dall'aeroporto e ci dirigemmo verso la loro station wa­gon.
- Passeremo da Parigi per andare a casa vostra? - chiesi.
- Se vi fa piacere sì - rispose Francesco.
- Grazie zio - dicemmo spontaneamente in coro tutte e tre.
Durante il tragitto li tempestammo di domande e loro risposero a tutto. Quasi senza riuscire a capire quanto tempo fosse tra­scorso arrivammo a Parigi. Lo zio parcheggiò accanto a un risto­rante e poi disse:
- Questo pomeriggio rimarremo a Paris, per cui mangeremo pro­prio qui. Voulez vous sortir, si'l vous plait?
Scendemmo dalla macchina ed entrammo nel ristorante. Un gio­vane cameriere ci salutò e ci guidò al tavolo. Il posto era grande e illuminato come un locale notturno, piuttosto che una mensa.
Ci accomodammo e gli zii, ovviamente in francese, parlarono al bel cameriere alto e bruno. Riuscii a capire quello che si dicevano malgrado il mio pessimo francese scolastico.
Mangiammo cose francesi e, a parte les frites, ancora non ho capito se mi siano piaciute. Pagammo con franchi francesi e poi uscimmo per digerire e per respirare l'aria di Pa­rigi. Ovviamente, per prima cosa andammo a visitare la Tour Eiffel. Non immaginavo che fosse così alta. Si riusciva a vedere tutta la città tagliata in due dalla Senna.
Poi, convinti che per tre studentesse come noi fosse una tappa obbligatoria, ci portarono al Louvre e, dopo quella valanga di opere d'arte riuscimmo ancora a vedere l'Arc de Triomphe.
Quando ci mettemmo in viaggio per tornare a casa, era già buio e, appena lasciata la capitale, già in aperta campagna, l'auto dello zio si fermò.
- Non vi preoccupate, mes petites filles. Adesso do un'occhiata al motore e in un momento sistemo tutto.
Scese, alzò il cofano, sbirciò dentro e poi rientrò in auto.
- Tutto apposto - disse, - tutto sistemato.
Prese il cellulare dal taschino e chiamò il carro attrezzi.

Prima parte

2. Arrivarono quasi subito, caricarono l'auto per portarla al garage più vicino e ci accompagnarono alla stazione. Da lì pren­demmo il TGV con fermata a Grendable.
Durante il viaggio, apparentemente per nulla preoccupato per il guasto alla macchina, Francesco ci disse che da casa loro a Grendable erano pochi chilometri e che, comunque, l'indomani avremmo po­tuto accompagnarli nello shopping e così l’avremmo potuta visi­tare con calma.
Il treno andava a oltre 200 all'ora, ci disse Silvia, e in poco tempo, infatti, fummo a Grendable. Da lì cercammo un autobus e via verso casa trascinando valige, pacchi e pacchetti. Sulla vettura c'eravamo soltanto noi, senza contare l'autista e un si­gnore molto distinto. Si accorse che lo guardavo e mi osservò a sua volta. Il suo sguardo era gelido e spaventoso. Una sciarpa nera gli copriva la bocca e un cappello calato sulla fronte lasciava scorgere soltanto lo sbrilluccichio dei suoi oc­chi. Fortuna che scese dopo poche fermate.
Quando finalmente scendemmo anche noi, Laura, Roberta e io ci rendemmo conto di essere stanchissime. Entrammo in casa senza ba­dare più a niente. Silvia ci accompagnò nella stanza degli ospiti al primo piano e letteralmente crollammo nei nostri letti.
Mi svegliai al sorgere del sole. Avevo sentito dire che in cam­pagna ci si sveglia al canto del gallo, ma non pensavo che fosse vero.
Sentii dei rumori al piano di sotto, Francesco e Silvia si erano già alzati. Mi vestii. Anche le mie amiche dovevano essere già di sotto, perché i loro letti erano vuoti. Senza starci più a pensare, scesi le scale e mi diressi in sala da pranzo.
Francesco, Silvia e le mie amiche erano lì. Ci salutammo e mi dissero di mangiare in fretta.
- Andremo a Grendable, stamattina, mangia in fretta, dài!
- Che così ti svegli.
- Si vede molto che ho dormito poco?
- No! - disse, mentendo, la zia di Laura.
- Quale autobus prenderemo? - chiesi, tanto per dire qualcosa.
- Il primo che passa - rispose lo zio.
Come dire che dovevo sbrigarmi. Di lì a poco uscimmo e France­sco ci fece ammirare il suo orto.
Sull'autobus gli zii ci dissero qualcosa di Grendable, una cit­tadina di circa centomila abitanti e ci chiesero se volessimo stare con loro oppure da sole per conto nostro.
Ovviamente chiedemmo di stare da sole. Appena scese, ci demmo appuntamento ad una certa ora sotto i grandi magazzini Pryca e ci incamminammo allegramente.
Arrivate davanti a un vecchio palazzo, fummo talmente attirate dalla sua architettura che non potemmo non fermarci ad ammirarlo.
- Guarda quante finestre!
- E che decorazioni!
- Devo fotografarlo!
- Ma come è abbandonato, però, sta cadendo in pezzi!
Intanto Laura estrasse la macchina fotografica dalla borsa e puntò il mirino verso il portone. Non si accorse di me e io non vidi lei, ci spingemmo a vicenda e la macchina cadde per terra, inghiottita dalle larghe griglie di una grata al livello di suolo.
Benché volesse uccidermi, Laura non disse una parola. Stemmo in silenzio per qualche minuto, poi un terribile cigolio e il por­tone si aprì. Doveva essere stato il vento perché nessuno uscì, ma noi tre ci precipitammo dentro, nella speranza di recuperare la mac­china. Ci trovammo nell'atrio di un grande cortile settecente­sco, da una parte scale per i piani alti, davanti le porte della ser­vitù e a sinistra le scale per scendere in basso, lì dove era fi­nita la macchina fotografica di Laura. Malgrado la poca luce scen­demmo nelle cantine sicuramente abbandonate. La macchina era lì, per fortuna, e sembrava intatta. Stavamo per ritornare su e respi­rare, quando udimmo dei passi.
Rannicchiate sulle scale per non farci vedere, scorgemmo un uomo che attraversava il piccolo cortile. Era quello stesso che avevamo incontrato sull'autobus la notte prima. Uscimmo allo sco­perto soltanto quando udimmo sbattere il portone.
- Che cosa facciamo?
- Andiamo via, presto! - disse Laura.
- Macché! - dissi io. - Questa storia non mi convince e voglio vederci chiaro.
- Ma perché?
- Perché questa è una casa abbandonata e soltanto delle stu­pide come noi o qualcuno che abbia qualcosa da nascondere ci pos­sono entrare.
- E allora?
- Allora quel tipo ha tutta l'aria di volere nascondere qual­cosa.
Ci dividemmo. Io salii ai piani alti e Roberta e Laura non si mossero per la troppa paura.
Aprii la prima porta e nulla, aprii la seconda e:
- Aaaaaaah!
Un uomo con un buco in mezzo alla fronte giaceva morto davanti a me.
3. Inorridita richiusi la porta e scoppiai in un pianto iste­rico. Non avevo la forza per chiamare le mie amiche e delle forti fitte mi distruggevano la pancia. Provai a gridare ma non mi usciva la voce, avevo la bocca legata. Laura e Roberta, però, ac­corsero richiamate dal mio strano silenzio.
- Che ti succede?
Non ci fu bisogno che rispondessi. Lo svenimento immediato di Laura chiarì che ciò che avevo visto non era un'allucinazione, il cadavere c'era.
- Che cosa facciamo? - chiese Roberta.
E io, credendo che si riferisse allo svenimento di Laura, le dissi che se riuscivo ad accendere un fiammifero, spegnerlo, e farle respirare il fumo, forse l'avrei fatta rinvenire: - L'ho vi­sto fare in un film.
- No, intendevo dire, con quello! - chiarì Roby indicando il morto.
- Chiamiamo la polizia! - risposi.
- Ma come giustifichiamo di essere entrate in questa casa? - chiese Laura che intanto aveva ripreso conoscenza.
- Dicendo la verità! - dissi io.
- E chi vuoi che creda a tre ragazzine italiane, in Francia?
Forse Laura poteva anche avere ragione, ma non c'era altro da fare, così mi allontanai da quella stanza per correre al più vi­cino posto telefonico. Le mie amiche avrebbero atteso davanti al portone del palazzo. Col mio balbettante francese scolastico riu­scii a mettermi in contatto con la police e poi ritornai alla casa abbandonata.
Laura e Roberta non c'erano più, ma non tardai molto a capire dove fossero andate. Mi salutavano da dietro le vetrine del super­mercato di fronte.
- Che cosa fate?
- Un panino, ne vuoi uno anche tu? Queste baguettes sono for­midabili!
- Io torno là dentro - affermai.
- Ma sei matta?
- Non voglio che la polizia pensi che noi italiani siamo dei fifoni.
Non ascoltai le loro proteste e rientrai nel palazzo. Però non riuscii a ritornare nella stanza del cadavere francese. Una mano mi spinse dentro una camera buia.
- Aiuto! - gridai. Nessuno venne in mio soccorso. Dietro la porta sentivo le voci di qualcuno che imprecava, in francese. Non saprei dire esattamente che cosa maledicessero, però era proprio chiaro che si trattava di parolacce.
Stavo già disperando per la mia vita quando udii il rassicu­rante urlo delle sirene della polizia.
Poco dopo sentii le voci di Roberta e Laura che, in un buffis­simo incrocio italo-francese, cercavano di spiegare che cosa fosse successo. Io picchiai forte contro la porta finché non vennero a liberarmi.
- Che cosa ci fai, qui?
- Dov'è il morto?
- Oui, quel mort? - chiese il capo dei poliziotti.
Il morto non c'era più e i poliziotti parigini non volevano credere che la nostra non era stata un'allucinazione ma la pura realtà.
Ci portarono in commissariato e ci tennero “in castigo” fino all'arrivo degli zii, che ci raggiunsero, dopo oltre due ore, in­sieme a Nicole, la loro figlia maggiore. Una giovane giornalista trentenne che sembrava la fotocopia di Laura invecchiata e fran­cese.

4. - È proprio uguale a me - bisbigliò Laura meravigliata al vedere una persona che la rispecchiava così tanto.
Gli zii ci dissero che Nicole lavorava a La Gazette, un gior­nale nazionale e si occupava di cronaca nera. Quando le dicemmo del cadavere, Nicole affermò che ci avrebbe aiutato volentieri a scoprire l'assassino, era il suo mestiere. Comunque, prima avremmo fatto meglio a tornare a casa e fare una bella merenda, conside­rato che a causa dello “scheletro francese” avevamo tutti saltato il pranzo. Non solo la police, ma nemmeno i nostri ospiti sardo-francesi ci prendevano sul serio.

Io e Laura guardavamo un film in salotto, non c'è niente di meglio della tivù per imparare le lingue. Roberta giocava in giar­dino con George, il vecchio cane di Nicole, mentre lo zio era alle prese con il suo impecca­bile orticello e la zia dava da mangiare ai conigli. Tutto tran­quillo, a parte il tichettio della macchina da scrivere di Nicole. “Devo consegnare il pezzo entro le cinque - ripeteva, - entro le cinque, entro le cinque”. E ogni cinque minuti chiamava in reda­zione o la chiamavano per aggiornarla sugli sviluppi di un caso incredibile che si era verificato durante la mattina. Una donna aveva ucciso il marito e i figli a pistolettate e poi si era buttata dalla finestra, e il tutto a Cretenin, un paesino a meno di dieci chilometri dal nostro. Nicole, per colpa del “nostro” cadavere inesistente, non era sul posto e scriveva il pezzo documentandosi telefonica­mente.
Entro le cinque del pomeriggio Nicole fini il suo articolo e corse a la poste per inviare l'articolo via fax, poi fu tutta per noi. Ci fece un sacco di domande su Alghero, sulla Sardegna e sull'Italia nel suo buffo franco-italiano e noi le rispondemmo su tutto facendo confusione tra “continente” e “isola”.
In breve fu ora di cena e gli zii convinsero Nicole a dormire da loro, nella sua vecchia stanzetta che adesso era occupata da noi.
ça va sans dire che dormimmo molto poco e passammo tutta la notte a parlare della casa abbandonata e del morto scomparso, scalfendo ogni minuto di più la corazza di scetticismo di Nicole. E non avrebbe potuto essere diversamente se si pensa che appena spenta la luce Laura scoppiò in un pianto isterico.
- Tutta colpa mia, tutta colpa mia - frignava.
E non c'era verso di consolarla.
- Sì, se io non avessi parenti in Francia, non saremmo mai venuti qui. E se non mi fosse caduta la macchina fotografica non saremmo mai entrate in quella casa maledetta.
- Mon chéri - la chiamava Nicole scambiandola per un cioccola­tino. - Non piangere, vedrai che tutto si sistemerà. Magari, avete visto un'ombra strana e, agitate come eravate, l'avete scambiata per uno “scheletrò”.
A quel punto Roberta, che fino ad allora aveva fatto finta di nulla tolse il suo asso dalla manica, cioè dal palmo della mano: un magnifico anello di brillanti.
- Se il cadavere era un'ombra, se i sequestratori erano soltanto frutto d'immaginazione, allora questo anello non esiste!?
Invece esisteva e come, secondo Nicole doveva valere almeno trecentomila franchi, circa 90 milioni di lire, e un anello così nessuno lo dimentica, in una casa abbandonata.
- Perché non l'hai dato alla polizia?
- Non lo so, non immaginavo che potesse valere tanto - rispose Roberta.
- Ma perché non ce ne hai parlato prima?
- Ve l'ho detto, non pensavo che potesse valere tanto!
- Dormiamo adesso, ragazze, vedrete che se c'è un morto, si farà vivo presto. Per un anello così, chiunque scapperebbe dall'inferno. Dormiamo, adesso.
Chiusi gli occhi ma non riuscii a dormire, rivedevo come in un film accelerato le immagini di quanto avevo vissuto nelle ultime ore.
Perché Roby non mi aveva parlato dell'anello?


5. Mi alzai d'improvviso con un tremendo bisogno di bere. Scesi dal letto cercando di non svegliare nessuno e andai giù in cucina. La campagna intorno era immersa in un raccapricciante silenzio. D'un tratto, un rumore impossibile l'interruppe.
Finii il mio bicchiere d'acqua in una sola sorsata e mi diressi verso la direzione da cui sembrava provenire. Diedi un'occhiata dalla finestra e, dopo una prima ricognizione, non ebbi dubbi, lo zio di Laura zappava nell'orto. A quest'ora di notte?
Non riuscii a capacitarmi, come poteva, quella persona così buona e così gentile, scavare in un orto tra le tre e le quattro della notte?
Ancora più attenta a che nessuno mi scoprisse, ritornai al letto. Non so come, mi addormentai.

- Questa notte ho dormito davvero bene - affermò Roberta alle sette del mattino.
Per me non era stato lo stesso, ma non avevo nessuna intenzione di dirlo.
Facemmo colazione tutti insieme e tutti sembravano di buon umore. Tutti meno Francesco. Si vedeva che era preoccupato e per di più stanco.
- Tu as l'air très fatigué, papa - gli disse Nicole.
Poi tutto procedette normalmente, fino al momento di uscire di casa, il direttore di La Gazette chiamò Nicole al cellulare. Le “ordinava” di trovarsi entro le dieci davanti al portone della casa da cui la poveraccia del giorno prima si era buttata dalla finestra.
Nessuna di noi tre ebbe dubbi, dovevamo andare con lei a Cretenin.
Anche gli zii uscirono di casa, ma non sarebbero venuti con noi.
Era una giornata magnifica, così soleggiata da obbligarci a tenere gli occhi costantemente socchiusi.
- Nicole, perché l'avrà fatto, quella donna? - chiese Roberta.
- Je ne sais pas! Follia.
- E tu credi che si possa diventare pazzi in pochi minuti?
- Oui! Perché no?!? Mille cose possono succedere in un minuto.
Lungo la strada vi erano molti alberi e le loro ombre disegnavano strane figure sull'asfalto. In breve arrivammo a Cretenin, un paesino con casette di due o tre piani coi tetti d'ardesia. Sulla piazza dove parcheggiammo si affacciavano alcuni forni e l'aria profumava di baguettes calde.
- Dopo - disse Nicole. - Mangerete dopo. Adesso venite con me.
La seguimmo due viuzze più su, fino ad una gioielleria dove un orefice di sua fiducia avrebbe valutato l'anello dello “scheletrò”.

La gioielleria non era più che un bugigattolo: una vetrinetta striminzita all’esterno, un bancone e quattro scaffali di legno, neanche protetti da vetri, all’interno.
Nicole, però, sembrava pienamente fiduciosa sulle capacità imprenditoriali di Jacques.
- Non badate alle apparenze, ragazze. Jacques è un vero esperto.
Entrammo.
- Nicole! - esclamò il signor Jacques andandole incontro per abbracciarla.
- Hello Jacques! - disse Nicole ricambiando l’abbraccio di quel gioielliere alto, giovanile e che non parlava una parola d’italiano.
Dialogando sempre in francese, Nicole gli spiegò perché fossimo lì, e quello si dimostrò molto interessato, si rigirava e rigirava l’anello tra le dita e lo studiava come se avesse sotto gli occhi un insetto e non un gioiello.
Né io né Laura riuscimmo a trattenerci e insieme esprimemmo, con mugugni francesi vagamente intelleggibili: “Insomma! Quanto vale?”
Jacques ci sorrise e, invece di rispondere, diresse uno sguardo interrogativo verso Nicole.
- Elles sont très préoccupées.
- Pourquoi pas?
- Parce qu’il y a un mort là! - dissi io d’un fiato.
Sì, sì “la madame” che si è “tombée” dalla finestra considerò il gioielliere e Nicole gli lasciò credere, spiegando che di lì a poco ci avrebbe fatto partecipare a un’inchiesta giornalistica. Quale che fosse la verità, noi quattro ragazze pendevamo dalle labbra di quel gioielliere francese dall’aspetto d’attore trasandato: - Demain - disse.
I nostri ma e le nostre occhiatacce non valsero a niente, Nicole aveva fretta e, dopo avere parlottato fitto fitto con il suo amico ci obbligò a uscire per strada.
- Davvero ci si può fidare di quel tipo?
- Oui!
- Che cosa hai saputo?
- Rien!
- Come, niente?
- Ecco, secondo lui si tratta di un anello di molto valore.
- E allora?
- Bisogna aspettare.
- Perché?
- Perché forse si tratta dell’anello rubato al Louvre.
- Che cosa?
- Sicuro - dissi ricordando vagamente un articolo che avevo letto prima di partire. - Il furto dell’allestimento della sala Francesco I.
- Oui, c’est ça! - confermò Nicole.
- Di che cosa state parlando, vi volete spiegare? - chiese Roberta. - In fondo, quell’anello era mio!
- Su questo avrei qualcosa da ridire - dissi.
- Non è il momento di litigare - intervenne Nicole. - Ho molta fretta di arrivare all’appuntamento con il direttore del giornale. La storia del museo è molto complicata.
Camminavamo veloci e Nicole era stata molto decisa. Sottovoce dissi alle mie amiche:
- Ai francesi rode molto questa questione del furto nella sala Francesco I. Vorrebbero che non se ne parlasse. La stampa internazionale, invece, ne ha scritto per settimane, anche quella italiana.
- Nous y allons?
Nicole ci invitava ad affrettare il passo.


6. Il direttore di La Gazette ci aspettava sul luogo del delitto. L'edificio era transennato e un signore di media statura, calvo, i baffi a spazzola e una macchina fotografica appesa al collo ci faceva segno di affrettarci. Era il capo di Nicole.
Non ci degnò di uno sguardo e prese la sua redattrice in disparte e le parlò fitto in un francese per noi incomprensibile. Poi, Albert Dideron, questo era il nome di monsieur le directeur, cominciò a scattare foto da tutte le angolature intanto che Nicole avrebbe intervistato i vicini. Però, nella fretta, Nicole aveva lasciato la sua macchina fotografica in auto; quella con cui aveva già scattato alcune foto era “la caméra” di Laura. Io e Roberta ci offrimmo per andare a prenderla. Corremmo verso “la voiture” e, già sulla via del ritorno, vedemmo una cosa che non avremmo voluto vedere mai. In un bar, c'erano due uomini che parlottavano animatamente. Uno era l'uomo misterioso dell'autobus e della casa abbandonata, l'altro era Francesco, lo zio di Laura. Silvia era seduta a un tavolino accanto a loro e sembrava che piangesse.
Allungammo il passo sperando che non ci avessero viste. Quando ritornammo “sul luogo del delitto”, cercammo di mantenere un’espressione indifferente, ma riuscimmo a dimostrare soltanto un’aria “seccata”, tanto che Nicole ci chiese di aspettarla giù in piazza:
- Già è difficile far parlare la gente in condizioni normali, ma con voi che sembrate tre statue arrabbiate, è davvero impossibile! - ci disse.
Una volta in piazza, Laura ci chiese spiegazione del nostro atteggiamento, ma non potemmo dirle nulla. Non avremmo mai potuto insinuare, che i suoi adorati zii francesi erano implicati in un omicidio, ma, soprattutto, il direttore del giornale di Nicole voleva intervistarci per un servizio su “les jeunes italliens”. Ci scattò qualche foto e poi ci tempestò di domande impossibili da decifrare. Io e Roberta insistemmo che non era proprio il caso, ma lui no, che andassimo al “journal”, dove con l’aiuto d’un interprete ci avrebbe intervistate tutte e tre, almeno una. Laura sembrava entusiasta e andò via con lui.
Sul momento non ci rendemmo conto di quanto fossimo state sceme. Lasciare andare via la nostra amica con uno sconosciuto, col pretesto dell’interprete, quando sarebbe stato più naturale e semplice aspettare Nicole oppure gli zii.
Non potevamo pensare a che cosa sarebbe successo a Laura perché eravamo troppo prese da fantasie criminali. Io volevo sapere che cosa avesse seppellito in giardino lo zio della mia amica, e Roberta voleva che le spiegassi del “suo anello” abbandonato nelle mani di un gioielliere dalla camicia sporca. Mi tempestò di domande e io a dirle cento volte di seguito ciò che ricordavo dell’articolo, cioè che durante l’allestimento di una nuova sala in stile Francesco I erano scomparsi tutti i gioielli d’epoca.
Tutto questo durò un paio d’ore, fino a quando Nicole uscì dal portone del palazzo con tre nastri audio interamente registrati e due bloc notes pieni di appunti.
- Andiamo, ragazze vi porto subito a casa e corro al giornale.
- Dobbiamo aspettare Laura.
- Dov’è andata?
- A farsi intervistare dal tuo direttore.
- D’accord, andiamo allora, la riporterò io per l’ora del pranzo.
Arrivammo alla macchina e partimmo di gran carriera. Le chiesi se le piacesse realmente fare la giornalista. Mi disse che non c’era niente di meglio al mondo, a parte giocare con George, il suo vecchio cane.
- Se avessi una grande casa a Parigi, lo terrei sempre con me.
In un lampo eravamo già a casa dei suoi genitori, Nicole aveva una fretta tremenda e nemmeno si fermò per controllare se ci fosse qualcuno.
- Aiutate maman a preparare il pranzo - ci urlò dal finestrino della macchina che ripartiva.
- Aspetta, Nicole, non abbiamo le chiavi! - le gridai dietro, ma fu inutile, era già lontana.

7. Per la prima volta da quando eravamo partite da Alghero, ci ritrovammo soltanto in due, libere di fare e spettegolare in libertà, se soltanto avessimo avuto le chiavi di casa per potere entrare.
Ormai c’eravamo, avremmo aspettato l’arrivo degli zii di Laura in giardino. Roberta cercava qualche frutto maturo tra gli alberi e io una vanga, una zappa o un bastone per frugare nel punto in cui avevo visto Francesco seppellire qualcosa.
Trovai una grossa canna di fiume e usai quella. Affondava facilmente nella terra. Roberta mi vide e mi chiese perché lo stessi facendo. Il mio istinto diceva di stare zitta e inventare una scusa sui due piedi, invece le dissi tutto quanto avevo visto e tutto quanto sospettavo. Un assassino poteva essere tra noi.
- Vado a cercare qualcosa per aiutarti - mi disse allontanandosi.
Ripresi a scavare faticosamente, poi, all’improvviso, una mano ossuta si poggiò sulla mia spalla e un brivido di terrore mi percorse la schiena. Aspettai quasi rassegnata e sentii la mano posarsi sulla mia per togliermi la canna.
- Aspetta - disse la voce dello zio di Laura. - Con una vanga faremo prima.
Tornò poco dopo insieme a Roberta e alla vanga. Scavò lui stesso.
- Vi prego - disse quando il buco era già abbastanza profondo, - non dite niente a Nicole, di tutto questo, ne soffrirebbe troppo.
- No! - urlò Roberta. - Non è possibile.
Lì, sotto la terra, c’era il cadavere del cane di Nicole.
- È morto! - esclamai stupidamente.
- Sì, povero George, Nicole ci teneva così tanto.
- Perché lo avete ucciso? - chiesi.
- È stato investito da un’auto, il povero George non era più un cucciolo e ci vedeva poco.
- E Nicole? - chiese Roberta.
- Non ho avuto il coraggio di dirglielo, per questo l’ho seppellito di notte.
- Non potete continuare a nasconderglielo.
- Nicole sta così poco da noi, e ha così poco tempo per giocare con il suo vecchio George, che passeranno mesi, prima che se ne accorga. Ha così tanto da fare!
- Ma non è giusto! - dissi a quell’uomo che mi sembrò improvvisamente invecchiato.
- Va bene - mi disse, - glielo dirai tu, a Nicole?
- Perché io?
- Perché io?
- Ha ragione il signor Francesco - intervenne Roberta, - forse è meglio aspettare un momento più opportuno.
Non sapevamo più che cosa dirci, se non darci da fare a ricoprire il buco, e così facemmo. Stemmo in silenzio per un po’, poi non seppi più trattenermi:
- L’ho vista in un bar di Cretèil, stamani, sua moglie piangeva, era per il cane?
- Sì, l’assassino di George vorrebbe rimborsarci della perdita con poche decine di franchi, se non lo denunciamo.
- Era quell’uomo insieme a voi?
- No, quello è il suo avvocato.
- Ma perché scomodare un avvocato per così poco?
Francesco mi guardò esterrefatto.
- Mi scusi, mi dispiace molto che George sia morto, ma se un cane attraversa la strada all’improvviso, l’automobilista che colpa ne ha? Perché scomodare gli avvocati?
- Perché era di notte e girava intorno a casa nostra con i fari spenti. Credo che fosse anche ubriaco.
- Che strano, dormiamo praticamente sulla strada, avrei dovuto sentire qualcosa.
- Eravamo tutti molto stanchi, probabilmente io stesso non mi sarei accorto di niente, se non soffrissi d’insonnia.
- Entriamo in casa - disse Roberta, - la zia ci chiama.
La moglie di Francesco ci chiamava a grandi cenni affacciata alla finestra della cucina.
 

8. - Presto, c’è Anna al telefono! - ci chiamava Silvia.
Francesco prese la cornetta e parlò in algherese con sua sorella. Mi sembrò buffo l’algherese ascoltato in Francia.
- Sí, ja estan bé. Vols parlar amb les amigues de ta filla? Ara les faç venir.
Parlammo a turno con la madre di Laura, prima Roberta e poi io. A casa stavano tutti bene, ed anche noi eravamo molto felici. Domani sarebbe apparsa la prima intervista francese di sua figlia, per questo che adesso non c’era.
- Non sento più, la linea è disturbata. Come dice? Se abbiamo tutto quanto ci occorre?…
La linea cadde, per fortuna, altrimenti avrei gridato di venire a prendermi quel giorno stesso. Troppi gioielli rubati, troppe morti misteriose, in quella Francia.
Gli altri, invece, sembravano di buon umore. Come se il cadavere dentro il vecchio palazzo l’avessimo sognato, io non fossi stata quasi rapita, la mia migliore amica non avesse rubato un anello del Louvre, non fosse morto il cane e, per di più, l’uomo che ci ospitava non lo avesse messo in una buca sotto terra in piena notte.
- Aiutatemi a preparare il pranzo - squillava raggiante Silvia, la stessa persona che al mattino avevo visto piangere in un bar.
- Andiamo - acconsentirono trotterellandole dietro Francesco e Roberta.
- Nicole e Laura ritorneranno affamatissime - considerò una delle mie due migliori amiche.
- A proposito, come mai non sono con voi? - chiese Francesco.

Due ore dopo, con il pranzo ormai freddo, eravamo certi che non sarebbero arrivate per tempo e decidemmo di mangiare senza di loro, in silenzio e un po’ seccati. Più tardi, però, il fastidio si trasformò in preoccupazione. Francesco, allora, telefonò al giornale. Nicole era appena uscita. L’uomo venne preso da un attacco di rabbia e gridò:
- Ta filla siguerà tot lo que vols, però, primer de tot és una gran mal educada!
- Frànce, no facis així. Ja el saps, com és ta filla - cercò di calmarlo la moglie.
Pochi minuti dopo trillò il telefono. Silvia corse a sollevare la cornetta.
- Oui, oui. Je ne sais pas!
- Non era Nicole? - le chiese Francesco.
- No, era un suo amico gioielliere. Ha detto che durante la pausa per il pranzo sono entrati dei ladri nel suo negozio e gli hanno rubato tutto. Compreso l’anello di stamattina. Ma che cosa sta succedendo? - concluse la donna.
Cercai lo sguardo di Roberta per chiederle di fare finta di niente, invece lei scappò via in lacrime. Anche Francesco perse del tutto la calma:
- Basta, io chiamo la polizia!
- No, la polizia no! - lo implorò la moglie.
Non ci capivo più niente. Fino a quella mattina, gli zii di Laura mi erano sembrati due persone eccezionali, in grado di mantenere l’auto controllo in ogni occasione. Mentre adesso, in poche ore, erano passati da probabili assassini a una normale, litigiosa coppia di genitori anziani. Era proprio uno di quei momenti in cui qualsiasi cosa tu faccia sarai sempre fuori posto. Due genitori ansiosi, un’amica affranta per il furto di un anello non suo, un’altra amica che sta per diventare famosa per via di un’intervista francese, una giornalista in ritardo di ore e io con la testa piena di domande senza risposta.
- Hello! Je suis ici!
Era la voce di Nicole che aveva appena aperto la porta dell’ingresso con un grosso fagotto tra le braccia.


9. - Poverino - diceva Nicole accarezzando il cucciolo di spinone, - mi si è parato in mezzo alla strada e non ho potuto evitarlo. Per fortuna non è stata una gran botta. Ma perdeva sangue e sono corsa alla clinica veterinaria più vicina. Sono dovuta tornare a Grendable, cioè.
Nicole snocciolava i dettagli della sua avventura senza quasi nemmeno respirare. Aveva investito un cane senza targhetta, lo aveva fatto curare e aveva deciso di adottarlo. Ma non potendo tenerlo nella sua piccola stanza mobiliata in città, lo avrebbe tenuto nel giardino del paese dei suoi insieme al vecchio George. Sempre che Silvia e Francesco non avessero niente in contrario.
- Eh, maman?
A quel punto Silvia scoppiò in lacrime e Francesco dovette dirle che il vecchio George era scappato. No, che lo avevano rapito. Anzi, che era morto.
Piangevano tutti. Nicole, Silvia, Francesco, Roberta, lo spinone ferito. Una scena ridicola, perché ero sicura che ognuno piangeva per un motivo non condivisibile dagli altri. Nicole per avere trascurato il suo vecchio George per troppo tempo. Silvia per non averle detto subito della morte del cane. Francesco per non avere saputo inventare una bugia credibile. Roberta per il “suo” anello rubato. Io per un morto a cui nessuno voleva ancora credere, e per non avere chiesto subito a quell’incosciente di Nicole:
- Dov’è Laura?
La giornalista sembrò non capire. Non ne sapeva niente di sua cugina, credeva che fosse in casa già da un pezzo.
- Però com és possible? - l’aggredì suo padre. - Com és possible que tu abandonis de sola, una minyona en un país forister?
- Ma papà, che ti succede?
L’uomo era fuori di sé, pareva avere perso completamente la calma. Non mi intendo troppo di psicologia per spiegarmi certe cose, però sono convita che reagisse a quel modo a causa del disagio e del senso di colpa che provava per la morte del cane, e, chissà, per il fatto della polizia. Non avevano trattato tanto bene nemmeno lui, i poliziotti francesi, e adesso avrebbe dovuto ritornarci per dire loro della scomparsa di sua nipote.
Eravamo in pieno marasma e squillò il telefono. Silvia corse a rispondere.
- Oui, Oui. D’accord. Oui, d’accord!
- Era Laura? - le chiedemmo.
- No, era il meccanico, dice che la macchina è pronta e possiamo andare a prenderla anche subito.
- Meno male, una buona notizia - commentò Francesco.
Mi sembrò il momento di riprendere a ragionare e dissi che avremmo dovuto pensare seriamente a che cosa fare per Laura.
- Té raó ella - disse la mamma di Nicole.
- Va bene - disse la giornalista accarezzando lo spinone ferito, - ma George era il mio cane di quando ero bambina… - finì la frase tra le lacrime.
Roberta l’abbracciò e pianse anche lei.
- Vi prego, sforziamoci di ragionare. Laura non è tornata ancora a casa, e dubito che lo abbia fatto di proposito. Non ci si avventura, da sole, in una città sconosciuta.
- Sono d’accordo con te - mi confortò Francesco.
- Sappiamo che è andata via insieme al direttore del tuo giornale, Nicole. Non ne sai niente, tu?
- No, ma lo chiamo subito.
Chiamò, e il direttore assicurò di avere fatto accompagnare Laura alla stazione dall’autista del giornale.
- So io che cosa faremo - disse Francesco, - la mamma starà a casa per prendere le telefonate e noi quattro andremo a cercarla per stazioni, fermate d’autobus e ospedali. Prima, però, passeremo dal meccanico così ci divideremo su due auto. Andiamo, forza.
Fummo tutti d’accordo e stavamo per precipitarci alla porta dell’ingresso quando suonarono al campanello. Trattenemmo il respiro e poi Roberta corse ad aprire.
Non c’era nessuno. O meglio, qualcosa c’era, ma per terra, sporco di fango e di sangue raggrumato: il cadavere dissotterrato del vecchio cane George.

10. La polizia arrivò pochi minuti dopo la nostra telefonata. George non poteva essere arrivato lì da solo, e chi ce l’aveva messo voleva certamente che ci spaventassimo. Ma perché?
Prima Francesco, poi Silvia, poi Nicole, poi io e Roberta dicemmo ogni cosa pensavamo potesse essere utile a fare luce sul mistero del cane e sulla scomparsa di Laura. Anche se i poliziotti non volevano credere a un collegamento sui due fatti.
Lo sfregio di George prima ucciso e poi deposto lì sull’uscio, poteva benissimo essere un dispetto tra vicini, o, peggio, un’intimidazione razzista contro una famiglia di stranieri del sud. E per quanto riguardava Laura, considerato che eravamo le stesse ragazze del morto fantasma, certamente si era fermata a mangiare un panino in qualche bistrot. Piuttosto, non avevamo qualche foto della “scomparsa”?
Nicole si ricordò di avere tolto il rullino dalla macchina di Laura, quella mattina prima di restituircela, e di avere fatto sviluppare tutte le foto. Le ultime le aveva scattate lei sul luogo dell’omicidio, ma le prime dovevano essere nostre. Non aveva avuto ancora tempo di guardarle. Ce le passò.
- Sceglietene una da dare alla polizia.
Le guardammo velocemente, poi:
- Non sono le nostre, noi non abbiamo fotografato nessun gioiello - dicemmo io e Roberta. - E questo abbracciato alla donna bionda, è l’uomo che abbiamo visto morto nella casa di Grendable!
- Donnez-les moi! - ordinò il poliziotto strappandoci di mano le foto. Poi farfugliò qualcosa all’orecchio del suo assistente e ci chiese di accomodarci e, per favore, di raccontargli nuovamente ogni cosa per filo e per segno, senza tralasciare nessun particolare; da quando ci era caduta la macchina fotografica nella grata fino a quando qualcuno aveva depositato il cadavere del cane sull’uscio e, per favore, che Nicole e i suoi genitori traducessero in francese ogni parola, anche le virgole.
- Pourquoi pas? - chiese Nicole.
- Regardez! - le rispose il poliziotto porgendole la foto.
- È impossibile!
- Què hi ha? - le chiese suo padre.
- Aqueixos són marit i muller que han trobat morts a la casa de Cretenin.
- Pardon! - chiese il poliziotto meravigliato di sentire parlare due italo francesi in catalano.
E io, chi sa perché, mi trovai a spiegargli, in francese, che Alghero fu una colonia catalana in Sardegna.
- Très intéressant, mais oui - però, all’ispettore interessavano soltanto i fatti di cronaca, e non le antiche storie di un impero coloniale, per cui, meno ideologia e più nozioni.


Andammo per punti:
1. Perché eravamo lì? Risposta: perché eravamo in vacanza premio a casa degli zii di Laura.
1.1. Da quanto tempo gli zii di Laura stavano in Francia? Risposta: Da quasi trent’anni.
2. Da quanto tempo eravamo in Francia? Risposta: Un sacco di tempo!
2.1. Specificare “un sacco di tempo”. Specificazione: Due giorni.
2.1.1. Considerazione francese: Avete una strana concezione del tempo, voi italiani!
3. Andiamo avanti, che cosa avete fatto dopo l’arrivo all’aeroporto? Risposta: Ci siamo arrabbiate per le spinte della gente al ritiro bagagli in aeroporto. Siamo andati a Parigi con gli zii della nostra amica.
3.1. Considerazione estemporanea di Roberta tra le lacrime: Quando la ritroverete? Risposta retorica in francese: Presto, non si preoccupi, presto.
3.2. Poi, che altro avete fatto? Risposta: mentre andavamo verso casa si è rotta la macchina di Francesco.
3.2.1. A Francesco: È vero? Che cosa aveva? Risposta di Francesco in francese: Non lo so, stavamo giusto uscendo per andare dal meccanico quando…
3.2.1.1. Lacrime di Nicole e di sua madre. Anche lo spinone guaiva.
4. Poi, il giorno dopo, a Grendable, avete trovato il morto fantasma? Risposta mia: Sì, all’incirca, però, la notte prima, tornando a casa, sull’autobus c’era uno strano tipo che non mi piaceva.
4.1. Che tipo? Risposta: Un avvocato, direi.
4.1.1. Domanda scema del commissario: Sono strani tipi, gli avvocati? Risposta: A volte sì!
4.1.1.1. Considerazione in francese: Sciocchezze!
4.2. Come siete entrate nella casa? Risposta: A Laura è caduta la macchina fotografica giù per una grata davanti a quel palazzo abbandonato e siamo entrate.
4.2.1. Dov’è la macchina? Risposta: Ce l’ha Laura.
4.2.2. Come avete fatto a scattare queste foto? Risposta: Quali foto? Noi abbiamo preso soltanto noi stesse con sullo sfondo famosi monumenti parigini.
4.2.3. Domanda arrabbiata: E le foto che ha sviluppato vostra cugina, chi le ha scattate? Risposta: Boh!
4.2.3.1. A Nicole: Da dove ha preso questo rullino che ha fatto sviluppare al giornale? Risposta di Nicole in francese: Dalla macchina di Laura, questa mattina.
4.3. Mia considerazione: Ci sono! Agitate come eravamo, non ci siamo accorte che quella era la macchina fotografica degli assassini e non la nostra, ed è per questo che Laura è stata rapita. Risposta in francese da parte del commissario: Non dica sciocchezze e andiamo avanti!
5. Com’era l’assassinato? Risposta: Uguale a quello della foto ma morto e con un buco nella fronte.
5.1. Quanto era alto? Quanto era grosso? Risposta: Non lo so avevo troppa paura per pensare a queste cose.
5.2. A parte il morto, avete notato altre cose? Risposta reticente, Roberta non voleva dire ancora del “suo” anello.
5.2.1. Lampadina da genio accesa sulla mia testa: Abbiamo visto uscire lo stesso uomo che la notte prima era sull’autobus!
5.2.1.1. Domanda in francese: L’avvocato? Risposta: Sì!
5.3. Domanda: perché non ce l’avete detto la prima volta in commissariato? Risposta quando ci vuole ci vuole: Perché in commissariato ci avete trattato da sceme, come se fossimo delle visionarie.
Suonano alla porta. Chi è?
- Si’l vous plaît, mademoiselle! - il commissario non vuole che nessuno della famiglia vada ad aprire.
Un agente va ad aprire.
- Bonsoir!
Era il meccanico.
11. Il commissario non ce l’aveva più né con me né con Roberta, ma con Francesco e il meccanico: l’auto dello zio di Laura era stata rubata dall’officina. Il meccanico era mortificato, non sapeva spiegarselo, non era mai accaduta una cosa del genere.
- Devi dirglielo - sussurrai a Roberta.
- Che cosa?
- Dell’anello, non fare la scema?
- Quale anello?
- Sei proprio una stupida, tanto è una cosa che verrà fuori, se non glielo dirai tu glielo dirà Nicole, o Silvia, o Francesca…
- Qu’est-ce que c’est, là? - chiese il commissario.
- Rien, ce n’est rien! - ci coprì la madre di Nicole. - Meglio se non glielo dite, dell’anello, se non ve lo chiede lui.
Suonò ancora il campanello. Era Jacques, il gioielliere.
Il commissario perse la calma e urlò, anche Nicole urlò, che quella era casa loro e non un commissariato, e che fino a prova contraria noi eravamo le vittime e non gli imputati.
- D’accord - fece il commissario e sembrò non essere interessato a Jacques, fino a quando Nicole non fece l’atto di salire con lui in camera. - No, signorina - li fermò in un francese che cominciavo a capire perfettamente, - preferirei che non vi allontanaste, almeno fino a quando non avrò finito di parlare con tutti voi.
- Ma è una cosa privata, personale - protestò Nicole.
- Siete fidanzati?
- No! - dichiarò a voce troppo alta la ragazza.
- È realmente una faccenda così intima, quella che la porta qui, monsieur Jacques Boneille?
- No, al contrario, sono qui per parlare con lei, soprattutto.
- Ah, davvero? - gongolò il commissario guardando Nicole con occhi di sfida.
- Sicuro, sono prima passato in commissariato e lì mi hanno detto che l’avrei trovata qui, a casa dei genitori della mia amica Nicole. Ma guarda, mi sono detto, due piccioni con una fava.
- Quale fava, signor Boneille?
- I gioielli che mi erano stati rubati questa mattina, sono stati ritrovati da un mio vicino abbandonati dentro una sacca a poche centinaia di metri dalla gioielleria.
- Bene, bene.
- E quindi passavo in commissariato per ritirare la denuncia.
- Tutto è bene ciò che finisce bene. Ed è sicuro che non mancasse proprio niente?
- Ecco - balbettò Jacques, - qualcosa mancava.
- Che cosa?
Jacques si voltò verso Nicole: - Mancava il tuo anello, Nicole!
- Mi spieghi di che anello si tratta, signorina!
- Di questo! - disse Jacques mostrando la foto. - È stato rubato al museo del Louvre qualche settimana fa.
Non potei più trattenermi. Presi la parola senza alzare la mano e dissi che quell’anello era stato trovato da Roberta accanto al morto misterioso, quello stesso che sarebbe riuscito a camminare per farsi risparare dalla moglie in un appartamento di Cretenin.
- Non era accanto al morto, l’anello - protestò Roberta, - ma accanto alla macchina fotografica, nello scantinato.
Quante avrei voluto gridargliene alla mia amica, ma non ci fu il tempo, il commissario era più arrabbiato di me e ordinò che lo seguissimo tutti al commissariato. Tutti quanti e senza protestare, se non volevamo più guai di quanti già non ne avessimo.

Seconda Parte

12. “Caro Dario, mi manchi tanto, qui in Francia è un inferno, non vedo l’ora di stare insieme a te; ma perché sono partita?…”
- Ciao!
- Dario, sei già qui?
- Lo sai, rispondo sempre ai tuoi desideri!
- Che bello che sei con me…
- Sveglia, siamo quasi arrivati.
Era la voce di Nicole che mi riportava alla realtà. Che incubo, io al posto di Roberta insieme a quel brufoloso di un antipatico di Dario. Mi venne quasi da vomitare. Ma erano successe così tante cose in così poche ore, che sfido chiunque, al posto mio, a non perdere il senso della realtà.
Il brufoloso dovevo averlo sognato a causa del mio litigio con Roberta; la stupida, invece di cercare di capire che cosa ci stava accadendo, si era chiusa in camera a scrivere lettere d’amore.
- Dove siamo? - chiesi a Nicole.
- A Perpignan, tra breve arriveremo all’ospedale.
Sì, all’ospedale, per stare accanto a Laura, povera amica mia.
- Non fare così - mi disse Nicole, - hai una faccia che è la reclame della disperazione. Allegra, dobbiamo sembrare felici, altrimenti, chissà cosa può pensare Laura!
Sì, una faccia allegra, ma come facevo? Il padre di Nicole era stato arrestato e sua madre era a casa che piangeva come una fontana, con Roberta che non poteva allontanarsi dal paesello, perché sospettata di complicità in furto di gioielli e perché doveva “badare al cucciolo di spinone”. Io, sua “complice”, avevo avuto un permesso speciale per stare accanto a Laura, rapita da chissà chi e ritrovata davanti alla vecchia casa della famiglia di Nicole alla periferia di Perpignan, chiusa nel bagagliaio di un’auto rubata: quella di suo zio Francesco.
Che caos, e come se non bastasse, mi trovavo in una macchina della polizia accanto a una giornalista che non sapevo più fino a che punto potevo considerare un’amica, visti gli ultimi sviluppi.
- Perché non ce ne avevate parlato mai?
- Perché avremmo dovuto? Voi dovevate stare da noi in Francia soltanto pochi giorni, perché immischiarvi in faccende che non vi riguardano.
- Nemmeno Laura ce ne aveva parlato.
- Non credo che lei sappia nulla, i miei non hanno mai voluto fare pubblicità alle nostre faccende private.
- Ma perché hanno arrestato tuo padre, esattamente?
- Non è stato arrestato, è in stato di fermo, ma non è niente di grave, domani o dopo sarà di nuovo a casa.
- Di che cosa l’accusano?
- Di essere troppo generoso.
- Non capisco.
Nicole mi fece un cenno con gli occhi, non voleva che i poliziotti capissero, e mi parlò in algherese:
- Ajuda els negres a entrar en França, i després els li troba un treball.
- I aixó és una culpa?
- Per calqui francès sí!
Era tutto così complicato, ma che cosa c’entravo, io, in questa storia, e Laura, poverina? Roberta, magari, un po’ se l’era cercata, brutta stupida. Se non avesse preso quel maledetto anello, avremmo potuto tornarcene ad Alghero col primo aereo. Invece, eravamo trattenute in Francia per accertamenti, ed essendo minorenni, i nostri genitori dovevano raggiungerci al più presto, oppure mandare un loro rappresentante legale.
Che vacanza del cavolo!
Ormai di notte, dopo tutta una giornata in automobile da Grendable a Perpignan, la macchina si fermò nel parcheggio dell’ospedale. Scortate da due poliziotti ci avviammo verso l’ingresso; ad aspettarci c’erano un signore molto distinto, non era un medico.
- Buona sera, signorina, ha fatto buon viaggio?
- No!
- Capisco, non è un bel momento, questo. Posso offrile qualcosa, un panino, una bibita?
Evidentemente la mia espressione doveva essere eloquente, perché finalmente si decise a dirmi chi era.
- Mi scusi, mi presento, sono Marco Miseriocchi, delegato dell’ambasciata italiana. Non appena siamo stati informati di quanto era accaduto alla sua amica Laura, ci siamo subito precipitati e, le assicuro, faremo tutto quanto in nostro potere per aiutarvi a uscire da questa vicenda.


13. La vista di Laura distesa nel letto d’ospedale fu molto penosa. Dormiva, per effetto dei sedativi, ma era livida, piena di graffi e di bende sulla fronte e sulle mani, e aveva un sonno agitato.
Non riuscii a trattenere le lacrime, Nicole mi abbracciò. - Fatti forza - mi disse, - non dare soddisfazione a questi francesi.
Mi resi conto che ero da sola in mezzo a gente sconosciuta e ostile. Non riuscii a trattenere un moto di stizza alla vista del commissario e, accanto lui, di quell’avvocato dallo sguardo torvo che fino ad allora avevo considerato un potenziale assassino.
- Elle, c’est son amie? - mi chiese il commissario senza nemmeno salutare.
- Pregunta a veure si es tracta de la teva amiga, oi que ho és? -
Era stato l’avvocato antipatico a parlare, e l’aveva fatto in una specie di algherese e con una voce amichevole.
- Riconosce la sua amica Laura? - intervenne anche il delegato dell’ambasciatore.
- Sì - dissi, e tutti e tre quegli uomini si disinteressarono di me, confabularono un poco e poi, due di loro mi comunicarono la decisione. Il commissario era troppo occupato a “torchiare” Nicole.
Secondo il delegato avrei dovuto tornare a Grendable insieme a lui, nella confortevole auto blu dell’ambasciatore italiano a Parigi. Mentre secondo l’avvocato avrei dovuto andare a dormire in albergo e poi ripartire in treno, insieme con lui, l’indomani mattina.
- Voi siete pazzi! - esclamai senza riflettere. - Io rimango qui, con Laura, fino a quando non sarà in grado di alzarsi da quel letto.
- Molt bé! - disse l’avvocato.
- Come vuole lei - disse il delegato, - le farò portare una coperta e qualcosa da mangiare.
- Grazie!
- E questo è il mio numero, mi può chiamare in qualsiasi momento - disse porgendomi un bigliettino da visita. - Arrivederla, buona sera!
- Buona sera - gli dissi, quando ormai era già via in fondo al corridoio.
- Jo em quedo aquí una estona més, m’agradaria que parlessim una mica - disse l’avvocato porgendomi una sedia.
Nicole era sempre più impegnata nella discussione con il commissario, ma i suoi occhi dicevano che potevo fidarmi di quell’uomo che invece del francese utilizzava un algherese strano.
Ci sedemmo l’una accanto all’altro, a poca distanza dal letto di Laura. Più in là c’erano un poliziotto in piedi che vigilava alla porta e un commissario che ringhiava contro Nicole incomprensibili parole francesi.
- Basta, per favore! - gridai. - Laura sta male!
Il commissario mi guardò stupito, e forse, se non ci fosse stato l’avvocato, avrebbe potuto menarmi, ma si trattenne, prese Nicole sotto braccio e la portò via. Uscendo borbottò qualcosa verso il poliziotto.
- Mi portano in commissariato - disse Nicole uscendo.
- Vol que vingui amb vostè? - le chiese l’avvocato.
- No cal, sóc una periodista i non em faran res, quedi’s amb ella, ho prefereixo.
- D’accord!
Eravamo soli, quasi soli, il poliziotto non contava e Laura era ancora incosciente; non sapevo da dove cominciare con le domande.


14. L’avvocato si chiamava Jordi Serra Cau, due cognomi che sembravano sardi ed invece erano catalani, anche se lui era cittadino francese dalla nascita.
Mi spiegò che i suoi genitori erano dovuti scappare da Barcellona nel 1939, subito dopo la guerra di Spagna. Si erano stabiliti a Prades de Coflent, un paesino dalle parti di Perpignan e, malgrado durante la seconda guerra mondiale fossero stati rinchiusi in un campo di raccolta, in quanto potenziali nemici dei nazisti, poi avevano deciso di stabilirsi lì. L’alternativa era il Messico o l’Argentina, ma i suoi genitori, catalanisti convinti, avevano deciso di rimanere in quella parte di Francia che loro chiamano Catalunya Nord perché per tanti secoli era stato territorio catalano e perché, ancora oggi, accanto al francese, vi si parla la lingua catalana. E poi, o forse soprattutto, perché El Rosselló (questo è il nome della regione intorno a Perpignan), confina con la Spagna e, per anni, i suoi genitori aspettarono la fine del Franchismo convinti che sarebbe caduto da un giorno all’altro.
Invece, quel regime dittatoriale, che opprimeva i cittadini spagnoli e costringeva loro all’esilio, durò 40 anni, un tempo sufficiente per una nuova vita. E in Francia, era nato lui, i suoi fratelli e vi erano morti i suoi genitori.
Per questo, quell’avvocato dall’aspetto torvo, a prima vista, ma in realtà simpatico e generoso, aveva deciso di mettersi dalla parte dei più deboli, dei nuovi esiliati, li definiva lui. Di tutti quelli che su barche improbabili abbandonavano le coste africane di notte per sbarcare a Gibilterra e poi, “clandestinamente” entrare in Spagna per cercare lavoro, oppure attraversarla per entrare in Francia attraverso i Pirenei o la Costa Brava.
Per questo era amico di Francesco, il padre di Nicole. Perché anche lui, in fondo, era un nuovo esiliato. Non era mai stato un clandestino, certo, ma per tanti anni si era sentito un cittadino francese di serie B, perché faticava a imparare la lingua ed aveva dovuto accettare un lavoro che i francesi rifiutavano. Dal niente, però, era riuscito a costruirsi una casetta alla periferia di Perpignan, poi, aveva avuto la possibilità di andare a lavorare a Grendable, e, da pensionato, aveva deciso di stabilirsi nella casa dove noi ragazze eravamo ospiti, ma, benché avesse una figlia giornalista e una buona pensione, Francesco non era né un ingrato né un rinnegato e aveva deciso di continuare ad aiutare i nuovi esiliati di oggi mettendo la vecchia casa di Perpignan a loro disposizione. A disposizione di quelli che i francesi chiamano “sans papiers”.
- E in Italia, come li chiamate in Italia?
- Non so -, gli dissi.
- Vu cumprà? - mi chiese Jordi.
- Che cosa?
- Vu cumprà! - ripetè.
- È vero, li chiamano così, “Vu cumprà”.
- I a l’Alguer, com els dieu?
- Non so, marroquí, negre
Mi rendevo conto, forse per la prima volta, di non essermi mai posta il problema di capire, realmente, chi fossero “gli altri”, i non garantiti, non tutelati, quelli che l’estate mi “disturbavano” in spiaggia per chiedermi se volessi comprare un accendino, un berretto, una collana di sassolini. E io, infastidita, a borbottare tra i denti un ipocrita: “No, grazie!”
- Allora - dissi, - zio Francesco non è un delinquente, ma un eroe!
- In un certo senso… - considerò Jordi.
Poi mi sembrò lontano, preoccupato o infastidito; in fondo al corridoio era apparso un negro. Automaticamente distolsi lo sguardo, quasi rimasi in apnea nell’attesa che andasse oltre, finsi un ritorno di preoccupazione per la salute di Laura, spiai oltre il vetro. La mia amica dormiva. Mi accorsi di avere una lacrima che mi scivolava giù dall’occhio destro. Piangevo per me stessa, per quanto ero ipocrita. Un attimo prima, ero partecipe e sincera ai racconti di Jordi sui poveri nuovi esiliati dell’Africa, ed ero fiera del padre di Nicole che li aiutava a rischio della galera, e, adesso, alla vista di un negro, mettevo la testa sotto la sabbia. Piangevo per la vergogna di me.
- Mademoiselle, senyoreta! - mi chiamava Jordi, - c’est Paul!
Quel negro, non era andato oltre, era lì insieme all’avvocato e mi tendeva la mano sorridente: - Stai bene - affermò in un italiano accettabile. Quella voce non mi era nuova.

15. Gli strinsi la mano, e il mio cuore cominciò a battere forte, le mani a tremarmi, ma non era paura. Che cosa mi stava accadendo?
Paul mi sorrideva e mi guardava con i suoi occhi neri luccicanti. Aveva la pelle scura, ma non molto di più di mio cuginetto a ferragosto. I capelli neri riccissimi e lunghi che gli crescevano come grosse spine di riccio di mare. Non dimostrava più di vent’anni e parlava italiano, come mai, perché mi sembrava di conoscerlo, chi era, perché mi faceva tremare, ma non di paura?
- Paul ti ha salvato la vita - disse Jordi.
- Che cosa, quando? - gridai.
- Stà calma, non attiriamo l’attenzione.
- Di che cosa state parlando? - chiesi.
- Ricordi la casa abbandonata di Grendable?
- Sì, c’eravamo entrate per recuperare la macchina fotografica, e allora?
- In quella casa, noi dell’organizzazione…
- Quale organizzazione? - interruppi ancora Jordi e, allo stesso tempo, cercando di evitare lo sguardo dolcissimo di Paul.
- La nostra, quella di cui fa parte anche tuo zio…
- Francesco non è mio zio, è lo zio di Laura. - Non riuscivo a stare zitta, non riuscivo a calmarmi.
- S.O.S. Racisme. Non ne hai mai sentito parlare?
- Sì, forse sì!
Ero come una foglia al vento. Sorridente, Paul mi abbracciò: - Non avere paura - disse, - non ti succederà niente.
Una ragazza “per bene” avrebbe dovuto urlare, a quel gesto, scandalizzarsi, schiaffeggiare l’assalitore. Io, invece, non feci niente, stavo bene tra le braccia di Paul. Mi sentivo al sicuro. Jordi continuò a parlare e non ebbi più voglia d’interromperlo.
- In quella villa abbandonata nascondevamo piccoli gruppi di clandestini, per un tempo sempre molto breve. E quel giorno Paul era lì, insieme ad altri due come lui. Gli avevo appena consegnato un permesso di lavoro stagionale, per la raccolta delle pesche e delle mele che fanno da queste parti. Ma non sapevamo, ancora, che dei banditi usavano quella villa per i propri traffici. Così, quando voi siete entrate, ci fu lo scontro tra quei fuorilegge. Io ero già andato via, credo che voi mi abbiate visto.
Annuii.
- Io non vi vidi, ma Paul sì, e quando capì che cosa stava succedendo e in che pericolo vi eravate cacciate, soprattutto tu, che eri tornata da sola nella villa, ti spinse in quella stanza buia per proteggerti, per impedire che i banditi ti vedessero e fossero poi obbligati a eliminarti come un testimone scomodo.
Ero calma, adesso, avevo capito, e Paul sciolse l’abbraccio, non comprendevo perché, ma mi dispiacque.
- Avevo visto gli assassini, ma non potevo andare alla polizia, mi dispiace. Capisci che mi avrebbero arrestato. Io, un “sans papiers”, testimone di un delitto? Nessuno mi avrebbe creduto. E a voi, invece, italiane e bianche, non poteva succedere niente.
- E Laura? - dissi. - Non è successo niente, a Laura? E a George?
- Mi dispiace molto, per Laura, ma chi è George?
- Il cane di Nicole.
Se Jordi era così bravo nel suo mestiere come lo fu a capire che cosa stava accadendo tra me e Paul, doveva essere un eccellente avvocato.
Ci disse che al piano inferiore c’era la caffetteria dell’ospedale, che avevamo estremo bisogno di un caffè, che andassimo, sarebbe rimasto lui accanto a Laura. Se si fosse svegliata ci avrebbe subito fatto chiamare.


16. Paul era del Senegal, gli mancavano cinque esami per laurearsi in farmacia, ma la sua famiglia non era ricchissima, così, per due estati aveva fatto il “vu cumprà”, un anno in Romagna e quello dopo in Toscana. Per questo sapeva l’italiano. Si trovava in Francia perché sperava di poter riuscire a finire l’università a Parigi, ma non aveva ottenuto la borsa di studio e nemmeno il permesso di soggiorno, non era uno studente ricco, e nessuno voleva assumerlo in modo regolare. Ma gli uomini del suo popolo non si arrendono facilmente, così era entrato clandestinamente e il resto lo sapevo.
Poi, la sua mano lunga e nera strinse forte la mia in un tavolino pieno di piattini, tazzine e briciole di croissant e mi disse che, se volevo, sarebbe andato immediatamente alla polizia e avrebbe detto ciò che aveva visto nella villa abbandonata di Grendable.
- No! Ti arresterebbero - gridai.
- Non ti preoccupare, andrà tutto bene.
Sì, bene, ma io ero confusa, non sapevo che cosa pensare di me. La mia migliore amica era stata sequestrata, picchiata e adesso era in ospedale. L’altra mia migliore amica mi era diventata odiosa. L’uomo che ci ospitava era stato arrestato. E forse anch’io, da un momento all’altro, potevo finire in prigione. Ero sola, in un paese straniero, lontana dalla mia famiglia. Avevo mille ragioni per essere disperata, invece ero lì, in un bar, mano nella mano con un ragazzo che fino a pochi minuti prima non sapevo chi fosse, “un marocchino”, come avrebbero detto le mie amiche e io stessa, ed ero felice, certa che tutto andava benissimo.
- Non ti preoccupare per Francesco. Domani faremo una grande manifestazione a Grendable. Sfileremo in tanti, bianchi e neri insieme, ci saranno anche persone importanti della politica e della cultura. Faremo un tale casino che il sindaco in persona dovrà chiedere la liberazione di Francesco.
In quel momento arrivò Nicole, era stravolta. Chiese un caffè e si sedette accanto a noi. Non sembrava minimamente sorpresa della presenza di Paul, e non faceva caso allo nostra intimità.
- Come è andata con il commissario?
- Benissimo, siamo liberi di andare dove vogliamo, a patto che non lasciamo la Francia.
- Perché?
- Perché una ragazzina scema, ha raccolto da terra un oggetto che non doveva. Non saremmo qui, adesso, se non fosse per quel maledetto anello e quella stupida della tua amica che l’ha raccolto e poi se l’è tenuto.
- Non è più mia amica!
- Meno male, per un attimo avevo temuto che dicessi che non è stupida!
Nicole era davvero di pessimo umore. Poi, una volta finito il caffè, guardò verso Paul e gli disse che dovevano andare, che Jordi li aspettava per partire tutti insieme.
- Lo so che ti dispiacerà di non poter venire con noi, ma Laura non è ancora in condizioni di viaggiare ed è bene che sia tu a starle vicino.
Uscimmo dal bar e ritornammo nel reparto. Jordi ci venne incontro e, deciso, si portò via Paul: - Non è bene che capiscano fino a che punto vi conoscete - e a Nicole, - ti aspettiamo giù, al cancello.
Per la prima volta da oltre venti minuti, mi accorsi che la mia mano non stringeva più quella di Paul, e che si allontanava senza nemmeno avermi salutato con un abbraccio. Ero spaventata, ma non triste.
Nicole entrò nella stanza di Laura che ancora dormiva faticosamente, la baciò sulla fronte e, prima di uscire, baciò anche me.
- Stà tranquilla - mi disse, - andrà tutto bene. - Al poliziotto non dedicò nemmeno uno sguardo.
- Au revoir! - le dissi.
- A mos veure! - rispose.
Ero di nuovo sola. Il poliziotto mi guardò, non sembrava cattivo: - Signorina, prego - disse in un italiano balbettante tendendomi qualcosa. Era una carta telefonica. Gliel’aveva data per me l’avvocato, perché lo chiamassi in qualsiasi momento. Insieme alla carta magnetica c’era anche il suo bigliettino da visita.
Mi resi conto che non chiamavo casa mia da due giorni: un’eternità.


17. Guardai l’orologio, erano passate da poco le dieci di notte, a quell’ora avrei trovato la mia famiglia al completo, era un giovedì e mio fratello va in discoteca soltanto il venerdì e il sabato, avrei trovato anche lui.
Sollevarono la cornetta al primo squillo, era mia madre. Non mi lasciò nemmeno respirare, mi assalì di parole e domande, i giornalisti di mezza Italia la interrogavano su sua figlia e lei non sapeva nemmeno che le fosse successo qualcosa. Mi volevo spiegare, una buona volta?
Mio padre doveva averle strappato il telefono di mano perché sentii l’eco di un pianto e la sua tipica parolaccia da maschio padrone di casa. Mi disse che voleva sapere tutta la verità, e che cosa c’entravo io con questi trafficanti di negri di Perpignan. Gli dissi che stavo bene, che non c’era niente da preoccuparsi e che non c’era più credito nella carta telefonica: - Adieu, papa!
Ero arrabbiatissima. Tornai nella stanza di Laura e chiesi al poliziotto di offrirmi una sigaretta, mi guardò comprensivo e m’indicò il segnale di divieto. Imprecai tra i denti e poi mi ricordai che non avevo mai fumato in vita mia. In quel momento Laura aprì gli occhi: - Sei tu, chiese?
- Sì, sono io - le risposi. Pensai che, a volte, le parolacce servono e corsi ad abbracciarla.
Avrei voluto chiederle tante cose, ma capivo che doveva essere lei a parlare per prima, ci avrebbe pensato la polizia a obbligarla a ricordare ogni dettaglio di quell’orribile avventura. Rapita, picchiata, e trasportata per centinaia di chilometri rannicchiata nel bagagliaio di un’automobile.
- Come sta Roberta? - volle sapere.
- Bene.
- Dov’è, adesso, è in pericolo.
- Perché?
- Per l’anello.
Adesso sì che le avrei chiesto di spiegarmi tutto, ma il poliziotto mi allontanò da lei con decisione, non potevo parlare con un’indiziata se prima non c’era stato l’interrogatorio ufficiale, aveva già provveduto a chiamare il commissario che sarebbe arrivato a momenti.
- Che cosa sa la polizia? - mi chiese Laura mentre venivo spinta fuori dalla stanza.
- Niente, credo, o forse tutto.
- Sei amletica - mi disse ridendo.
- No, sono soltanto felice.
Quando fui fuori dalla stanza volevo saltare dalla gioia, Laura stava bene e scherzava e io sentivo ancora accanto a me la presenza di Paul, nemmeno il volto antipatico del commissario che attraversava veloce il corridoio mi turbava.
- Bonsoir! - gli dissi.
- Merde! - mi rispose lui da buon francese elegante.
Pensai che doveva essere pieno di “cavoli amari”, se i giornalisti tempestavano casa mia ad Alghero, chissà che cosa stavano facendo a lui: “Turista italiana minorenne rapita; suo zio arrestato; le sue amiche implicate in un furto di gioielli del Louvre”.
Mi faceva quasi pena, povero commissario.
Venti minuti dopo era fuori dalla stanza di Laura, era così rilassato che si accese una sigaretta davanti a me. Mi sbuffò sotto il naso. Gliela presi dalla bocca e la schiacciai sotto il piede.
- Interdit! - esclamai.
- Perdonez moi! - disse. Chissà che cosa gli aveva detto Laura, perché era un altro uomo.
Gli chiesi se potevo entrare dalla mia amica e se potessi parlare con lei senza preoccuparmi del poliziotto.
- Non! - falso allarme, non era cambiato. - Elle viendra avec moi.
- Mi arrestate? Perché?
Mi strinse sotto braccio e mi obbligò ad andare con lui.
Mi divincolai e corsi verso la stanza di Laura, non mi fecero entrare, un’infermiera gentile mi disse che doveva riposare, che era fuori pericolo e che non aveva bisogno di me ma di medicine, mentre io dovevo riposarmi, avevo gli occhi da rospo, mi disse. Salutai Laura con un cenno e guardai il commissario, mi stava aspettando.
Uscimmo dall’ospedale, salimmo sull’auto della polizia e, dopo qualche minuto ci fermammo, ma non alla centrale, davanti a un albergo quattro stelle. Il commissario mi fece cenno di andare, un ragazzo in divisa da lift mi aprì la porta, una signora sorridente mi consegnò le chiavi della camera e quello stesso ragazzo mi accompagnò nella stanza.
- Bonne nuit, mademoiselle!
- Bonne nuit!
Sul letto c’era una camicia da notte dentro una confezione di plastica e un accappatoio. Decisi di mettermi sotto la doccia con l’acqua a cento gradi.

18. Mi svegliai tardissimo, avevo dormito come un sasso. In corridoio sentivo voci di cameriere e rumori d’aspirapolvere. Accesi la tivù. Trasmettevano cartoni francesi, quiz francesi, telefilm francesi e notiziari francesi. Un momento, quella era Nicole e accanto a lei c’era Paul.
Mi concentrai sulle parole del giornalista fuori campo e sui volti dei miei amici. Non c’erano dubbi, si trattava di una manifestazione organizzata da S.O.S. Racisme per protestare contro l’ingiusto arresto di Francesco, in fondo, soltanto accusato di aiutare i più poveri. Un cambio d’inquadratura e un primo piano sull’avvocato Jordi Serra Cau: spiegava a una selva di microfoni che miravano al suo naso, il perché della protesta e dell’assurdità dell’arresto di un italiano che aveva servito lo Stato francese con tanta abnegazione fino a chiederne la cittadinanza. Francesco aveva soltanto offerto la sua casa di Perpignan come alloggio ai nuovi esiliati, quei cittadini del mondo che lasciano le loro case perché costretti dalla povertà e dalle guerre: “L’Occidente ricco e democratico non può mostrare la propria ostilità nei confronti di chi soffre; il naturale senso di giustizia degli uomini perbene deve prevalere. Chiediamo più disponibilità nei confronti degli umili della terra e l’immediata scarcerazione di Francesco”.
Mi lavai e mi vestii in fretta senza distogliere lo sguardo dalla tivù. Speravo di riuscire a vedere il volto di Roberta accanto a Nicole, a Silvia, a Paul, Jordi, Jacques, il direttore di La Gazette. Ma non c’era.
Telefonai in portineria e chiesi che mi chiamassero un taxi, volevo correre all’ospedale, da Laura.
Giù trovai lo stesso poliziotto della notte prima che mi aspettava. Mi disse che era inutile agitarsi tanto, che le cose stavano andando per il verso giusto e che potevo tranquillamente fare colazione, Laura si stava riprendendo alla grande e, in quell’albergo, avevo tutto pagato.
Gli diedi uno spintone e mi diressi verso l’uscita.
- S'il vous plaît, mademoiselle! - mi disse pregandomi di tornare indietro.
- Andiamo! - gli urlai.
C’era molto traffico, per strada, e quei dieci minuti in automobile mi sembrarono lunghissimi. In ospedale tutto era come il giorno precedente, non era cambiato nulla, ma avevo l’assoluta certezza che niente sarebbe più stato come prima.
Corsi le scale, non volevo prendere l’ascensore, il poliziotto mi stava alle costole, finalmente ero arrivata alla stanza di Laura. Sentivo distintamente delle voci che venivano da dentro, parlavano in italiano e mi sembrava di conoscerle, avevo paura di aprire.
Erano il padre e la madre della mia amica che discutevano con il delegato dell’ambasciata e il commissario che rispondeva loro a mugugni, accanto c’era un ragazzo alto che stava in silenzio. Era mio fratello, non appena mi vide mi abbracciò stretta, non riuscii più a trattenermi, piansi forte, con tutti i singhiozzi del mondo.
Non m’importava che gli altri mi guardassero ammutoliti. Non ne potevo più di tutta quella tensione. Sentii un corpo leggero che si stringeva al mio, era Laura.
- Non piangere - mi disse, - vedrai che tutto andrà bene.
- Sono tutti in televisione - farfugliai.
- Calmati, ci sono i miei genitori, sistemeranno tutto loro.
Mi asciugai le lacrime e strinsi le loro mani.
- Adesso, voi due vi preparate e tornate insieme a noi ad Alghero con il primo aereo per Roma - affermò la madre di Laura.
- Ce n’est pas possible! - disse deciso il commissario.
- Perché no, queste ragazze non hanno fatto niente, di che cosa le accusate? - gli chiese il delegato dell’ambasciata.
Erano gli stessi adulti di sempre, pronti a scannarsi per una stupida questione di principio e poi indifferenti ai sentimenti e gli affetti di chi sta loro vicino.
Nemmeno si accorsero che Laura, mio fratello e io uscivamo dalla stanza.


19. Il poliziotto non ci permise di allontanarci fino al bar, però spiegò a mio fratello dove fosse.
Finalmente eravamo sole, libere di abbracciarci e di piangere a nostro piacere.
- Se non ci fossi tu, - mi disse, - non so come avrei fatto, con tutti questi matti.
- Che cosa ti hanno fatto, Laura, chi è stato? A me puoi dirlo.
- Non mi hanno fatto niente, non ne hanno avuto il tempo, credo.
- Non vuoi parlarne, se non sei ancora pronta, non sei obbligata a dirmi niente.
- Tutto quello che avevo da dire, l’ho già detto al commissario, non c’è nessun mistero.
- No?
- No, i banditi cercavano il catalogo e il campionario della refurtiva e hanno trovato le nostre foto.
- Non capisco.
- Ricordi quando entrammo in quella villa per cercare la macchina fotografica e trovammo un morto?
- Certo.
- Il morto era vero, non era stata un’allucinazione, era la macchina fotografica a non essere vera, non era la nostra, ma la loro, quella dei banditi, che avevano appena fotografato i gioielli rubati al Louvre per farne un catalogo “clandestino” da far girare tra i ricettatori insieme all’anello trovato da Roberta. Poi, chissà perché, proprio mentre noi entravamo, si sono ammazzati tra loro, e sono scappati con la nostra macchina fotografica. Devono avere sviluppato le foto e sono riusciti a rintracciarci.
- Ma perché proprio te?
- Hanno preso me perché sono stata l’unica a rimanere da sola; dopo l’intervista, il direttore del giornale di Nicole, mi aveva accompagnato alla stazione, l’autobus era in ritardo e lui aveva fretta. Non appena si è allontanato, sono arrivati loro, sulla macchina di zio Francesco, quasi non mi sono accorta di come sia successo.
- E poi?
- Poi mi hanno minacciata, mi hanno picchiata, hanno detto che mi avrebbero fatto fare la fine di George se non avessi riportato le loro foto e il loro anello.
- E tu?
- Ho detto che non sapevo niente, che non capivo il francese…
- Perché?
- Che cosa volevi che facessi, che li accompagnassi in camera nostra, a casa di Silvia e Francesco?
In quel momento ritornò mio fratello con due lattine e tre croissant.
- Ne avete di cose da raccontare - disse - i giornali e le televisioni di mezza Italia non parlano che di voi!
- Quando sei arrivato? - gli chiesi.
- Ieri notte, insieme con i genitori di Laura e di Roberta, abbiamo noleggiato un auto e siamo arrivati subito qui.
- E qui anche Roberta?
- No, è a Parigi, all’ambasciata, i suoi genitori vogliono che la polizia li autorizzi a ripartire immediatamente, altrimenti minacciano uno scandalo internazionale.
- E l’anello?
- Che anello? Non so niente di anelli, mangia il croissant, che è buono caldo.
Mangiammo in silenzio, per qualche istante, fino a quando gli adulti non uscirono dalla stanza.
- Ce l’abbiamo fatta - disse soddisfatto il padre di Laura, - non appena i medici ti autorizzeranno a lasciare l’ospedale ripartiamo per l’Italia. Puoi venire con noi.
- E lei? - chiese Laura indicandomi.
- C’è suo fratello, che ci pensi lui; adesso noi andiamo a pranzo con l’ambasciatore, vuoi che ti portiamo qualcosa?
- No grazie! Perché non stiamo un po’ da zio Francesco, gli farà piacere, vi vedete una volta ogni due anni?
- Che vada al diavolo!
- Ma è tuo fratello, papà!
- Andiamo - disse il delegato ai genitori di Laura, - vi porterò nel miglior ristorante di Perpignan, i francesi mangiano un’ora prima che da noi.
Nessuno le aveva ancora detto niente dell’arresto di suo zio. Povera Laura, e io non le avevo ancora parlato di Paul. Povera me.


20. Il poliziotto non fece storie e ci autorizzò a stare nella sala televisione. Laura capì ogni cosa guardando il servizio in diretta sulla manifestazione a favore de “l’italien”.
- E io che pensavo che mio zio fosse un tranquillo pensionato, adesso capisco tutta quell’aria di mistero.
- Che mistero? - chiese mio fratello, - un altro?
Gli dicemmo di farci ascoltare, che gli avremmo spiegato tutto dopo.
- No, voglio sapere tutto adesso, non ho fatto tutti questi chilometri e sono stato sveglio tutta la notte per farmi trattare come un idiota.
- Hai ragione - dissi, - un po’ sei, idiota.
Laura rise, ed anche mio fratello. Abbassammo il volume della tivù e gli spiegammo tutto, o quasi, su Paul fui molto evasiva.
- Sarebbe tutto chiaro - disse alla fine del nostro racconto mio fratello, - se non fosse per il morto che cammina. Come poteva trovarsi con una pallottola in fronte in una villa abbandonata, e il giorno dopo sul luogo di una strage della follia? Cos’è, gli scheletri francesi camminano da soli?
- Spiritoso!
- No, sul serio, voi come lo spiegate?
Sicuramente mi sarebbe venuto qualcosa di divertente da dire se, in quel momento, la televisione non avesse trasmesso la carica della polizia che disperdeva i manifestanti.
- Guardate, stanno arrestando Nicole.
- Chi è Nicole? - chiese mio fratello.
- È mia cugina.
- No, hanno preso anche Paul! - gridai.
- Chi è Paul, un altro cugino?
- No, è un mio amico.
Il poliziotto e un’infermiera vennero a chiamarci, era arrivato il medico per il controllo di Laura. Li seguimmo in silenzio.
La mia amica stava molto meglio, con una settimana di riposo assoluto sarebbe tornata come nuova, era giovane e forte. Secondo lui sarebbe stato meglio non farla uscire dall’ospedale, ma se la famiglia l’avesse richiesto, lui non si sarebbe opposto.
E il commissario, che cosa ne pensava? L’avrebbe fatta andare via, lui?
Lupus in fabula arrivò con un pacco di fotografie segnaletiche, chiese a mio fratello di uscire e ordinò al poliziotto di non far entrare nessuno.
Ci mostrò le foto e ci chiese se riconoscevamo quelle persone fotografate. Io riuscii a riconoscere solamente il morto, lo scheletro francese, mentre Laura ne riconobbe altri due ancora, i suoi sequestratori.
- D’accord - fece. E sembrava davvero soddisfatto. Gli chiedemmo che cosa sarebbe accaduto a Francesco, a Nicole e a Paul.
- Je ne sais pas!
Lo scheletro ambulante e i gioielli non erano più un problema della polizia, ma a noi, e ai nostri amici, che cosa sarebbe accaduto, ancora?
Il commissario se ne andò e io fui costretta ad andare via dalla stanza, Laura doveva pranzare e riposare. Se volevo potevo tornare all’albergo dove avevo passato la notte, ero libera, il morto che avevo raccontato di vedere non era stato il frutto di una fantasia e, considerato che la refurtiva era stata ritrovata e non c’entravo niente con i clandestini potevo andare dove volevo, a patto che non lasciassi la Francia per qualche giorno ancora, c’era qualche piccolo dettaglio da chiarire e io ero l’unica delle tre a non avere i genitori rompiscatole in Francia. Quest’ultima parte non la disse, ma io riuscii a sentirla ugualmente.
- Perché non andiamo a mangiare un boccone? - propose mio fratello. - Poi ce ne andiamo a passeggiare, o in qualche museo.
Uscimmo dall’ospedale e ci fermammo nel primo bistrot che trovammo sulla strada.
Mangiammo qualcosa e parlammo di noi, di come, anche se fratelli, sapessimo molto poco l’una dell’altro. E dei nostri genitori, di come l’avevano presa male, questa storia.
- Dovremmo parlare di più, io e te, e non solo quando ammazzano qualcuno o ti rapiscono un’amica…
- Zitto! - lo interruppi. In televisione c’era Jacques, l’amico gioielliere. Stava dicendo, se non capivo male, che aveva trovato i gioielli trafugati dal Louvre dopo una sua personale indagine grazie alle indicazioni di tre simpatiche ragazze italiane. Gli avevano portato un anello da valutare, si era insospettito e, attraverso alcuni amici “del giro”, aveva scoperto che il bottino era passato da una banda di balordi all’altra. Il primo ladro, un custode avventizio del museo, aveva “venduto” i gioielli a una banda specializzata che, a sua volta aveva girato l’oro a un ricettatore poco affidabile. Insomma, da una mano all’altra fino a quando c’era scappato il morto, che, nel tentativo di nasconderne le tracce, era stato trasportato nella casa in cui era stata inscenata la strage. La scientifica aveva dimostrato che uno dei morti di quella famiglia era defunto da almeno 24 ore prima degli altri. Ma se non fosse stato per l’anello delle tre italiane, Jacques non avrebbe avviato nessuna indagine “privata” e non avrebbe scoperto un bel niente.
- Siamo noi, le tre italiane - dissi a mio fratello.
- Bene, sei libera, adesso.
- Zitto! - C’era il direttore di La Gazete. Anche lui stava parlando di noi, o meglio, di Nicole e suo padre. Diceva che il suo giornale appoggiava la lotta di tutti i francesi onesti e che si dichiarava orgoglioso di essere concittadino di Francesco. Pertanto, avrebbe continuato a protestare fino alla sua scarcerazione e archiviazione di ogni capo d’imputazione, non è reato aiutare i poveri.
Poi, la voce fuori campo del giornalista, diceva che la liberazione dei manifestanti veniva data come imminente.
Baciai mio fratello su una guancia uscimmo dal locale. Il sole sembrava sorridente.


21. Avevamo passeggiato senza una meta precisa, per un paio d’ore, poi, di ritorno in ospedale, la sorpresa. Il caso era ufficialmente risolto, noi non c’entravamo niente, i genitori di Laura non avevano voluto sporgere denuncia ed erano corsi in auto verso l’aeroporto di Parigi. Anche Roberta e i suoi genitori avevano fatto la stessa cosa. Quella notte avrebbero dormito nel loro letto, ad Alghero.
Per me c’era un biglietto di Laura: “Scusami!”. E un biglietto per il primo treno fino a Grendable offerto dall’ambasciata per me e mio fratello. Ce li porse un’infermiera frettolosa.
- Che cosa facciamo? - chiese mio fratello.
- Non lo so. - Istintivamente misi una mano in tasca e trovai la carta telefonica del giorno prima. Decisi di telefonare a casa di Francesco.
- Oui! - era la voce di Silvia.
- Sono io, come va?
- Da dove chiami?
- Dall’ospedale di Perpignan.
- Come sta, Laura?
- È tornata in Italia.
- E tu?
- Posso venire da voi? Ho bisogno di salutarvi.
Col treno arrivammo a Grendable a notte fonda, da lì prendemmo l’autobus e scendemmo a casa degli zii di Laura. Avrebbe potuto sembrare tutto come la prima notte, ma non era vero. Erano accadute così tante cose, in quei pochi giorni.
Attraversammo il piccolo giardino e suonammo il campanello. Ci venne ad aprire Jacques. Era allegro: - Elle est arrivée! - gridò verso gli altri. Mi venne incontro Nicole con in braccio il suo nuovo cane. Francesco e Silvia erano seduti sul divano e l’avvocato Jordi era con loro, c’erano anche due nuovi esiliati di colore. Li abbracciai tutti e presentai mio fratello. Stemmo a parlare fino a notte fonda. Mischiando lingue: francese, italiano, catalano e arabo; e storie: i gioielli del Louvre, i sans papiers, gli scheletri francesi.
Non sapendo del furto, Francesco sospettava che il morto che avevamo visto nella villa fosse legato ai suoi “clandestini”, così come l’assassinio del cane George e il furto della macchina. Anche Jordi era dello stesso parere, soprattutto dopo che la macchina era stata ritrovata davanti alla loro casa di Perpignan, un chiaro avvertimento. Fortuna che Jacques sapeva il fatto suo e quando andammo a portargli l’anello da valutare cominciò a sbrogliare la matassa; il fatto era che i banditi non potevano credere che Francesco non sapesse niente dei gioielli e così, prima ammazzarono il cane e poi…
- Tutta colpa dell’anello - dissi, - se Roberta non l’avesse preso e poi nascosto, non sarebbe accaduto niente di tutto questo.
- Non c’entra niente, Roberta - intervenne l’avvocato, - semmai la macchina fotografica scambiata. Quando svilupparono le foto, i banditi ci videro i vostri ritratti, invece delle loro, e non potevano più stare tranquilli. Per questo hanno rapito Laura.
- Povera amica mia - dissi.
- Perché? - intervenne Nicole. - Quando le capiterà ancora di avere la foto in prima pagina. La sofferenza è il prezzo della gloria.
- Lo pensi davvero? - le chiesi.
- No, scherzo. Comunque - concluse, - non fosse stato per Paul, che ha confermato la vostra versione dei fatti nelle villa e ha riconosciuto gli stessi banditi che l’hanno rapita, non credo che la polizia vi avrebbe lasciato andare tanto facilmente.
- Dov’è adesso?
- Il tuo bel Paul?
- Dov’è?
- È ancora in stato di fermo - disse Jordi.
- Che cosa potrebbero fargli?
- Espellerlo dalla Francia.
- Quando?
- Domani…, fra qualche giorno.
- Siamo molto stanchi, - disse mio fratello, - io e mia sorella dovremmo andare a dormire.
- Venite - gli rispose Silvia, vi accompagno.
Era davvero molto tardi, mio fratello aveva ragione: - Domani cercheremo di prendere il primo aereo per l’Italia.
- Perché non venite con me? - propose Nicole. - Il direttore mi ha spedito in Corsica per un servizio sugli indipendentisti. Parto domani con la macchina del giornale. Se riuscite a farvi rimborsare il prezzo del biglietto aereo risparmiate un sacco di soldi. Una volta in Corsica, il traghetto da Bonifacio a Santa Teresa costa due lire.
- Perché no? - disse mio fratello dopo aver risposto al mio sguardo.
Corsi ad abbracciare Nicole.
- Attenta al cane - disse mettendomi in tasca un biglietto.
Lo aprii non appena fui sola in camera. Guardai direttamente alla firma, era di Paul. Non ebbi il coraggio di leggerlo. Decisi che l’avrei riaperto soltanto quando mi fossi sentita davvero pronta per farlo.

Epilogo

22. Partimmo in direzione di Nizza nel cuore della notte del giorno dopo. Avevamo risolto ogni pendenza investigativa e turistica e potevamo tornare a casa. A mio fratello non dispiaceva l’idea di stare un giorno o due accanto a quella giornalista francese così “charmant”, e io non avevo voglia di ritornare subito a casa, subire gli interrogatori dei miei e scoprire che fra me e le mie amiche era tutto cambiato, oppure no, che eravamo ancora le stesse tre ragazzine sventate della partenza. Allungare il viaggio di ritorno, poteva essere un buon espediente.
Mio fratello e Nicole si alternavano alla guida e scherzavano come due vecchi amici, io fingevo di dormire sdraiata sul sedile di dietro in mezzo a tutti quei bagagli. In tasca, stretta nella mia mano, tenevo la lettera di Paul. Volevo leggerla, ma non ancora. Mi addormentai veramente.
Mi svegliarono al porto di Nizza.
- Siamo già arrivati? Ma è già giorno!
- Sì, e ti sei persa una magnifica alba francese - disse mio fratello.
- Perché non mi avete svegliato?
- Dormivi così bene!
Fummo i primi a salire sul traghetto diretto a l’Ile Rousse. Sistemata l’auto, andammo verso la sala bar. Scegliemmo un tavolino accanto alla vetrata e mio fratello ci chiese che cosa volessimo per colazione.
Quando fummo sole, Nicole mi chiese: - Come stai?
- Non lo so - le risposi, - è successo tutto così in fretta.
- Anche per noi, anche se erano anni che ce lo aspettavamo.
Non capivo.
- Non parlo né dei morti né dei furti, parlo dell’arresto di mio padre per aver aiutato i “sans papiers”. Hai visto come hanno reagito i genitori delle tue amiche? Sono scappati senza nemmeno degnarci di un saluto.
- Anche i miei avrebbero fatto lo stesso, temo.
- Ma perché la gente è così indifferente ai problemi degli altri?
Arrivò mio fratello carico di croissant e bicchieri di plastica.
- Chi sarebbe indifferente? - chiese.
- Dicevo a tua sorella che il direttore del giornale mi ha spedito in Corsica per intervistare alcuni indipendentisti corsi.
- Come mai?
- Come mai che cosa, la mia venuta qui o l’indipendentismo corso?
- Tutte due - disse mio fratello addentando un croissant.
- Il perché dell’indipendentismo, credo sia una storia molto lunga, addirittura precedente Napoleone; nei fatti, penso perché a nessuno piace essere trattato come un cittadino di serie B dal più stupido dei parigini. E il direttore ha scelto me perché, dopo quello che è successo a mio padre, ho una certa dimestichezza ad intervistare i familiari di chi sta in carcere.
- Non ne sapevo niente - disse mio fratello, - non immaginavo che ci fossero indipendentisti corsi in carcere.
- Ecco, adesso sai chi è indifferente.
Pensai che non sarei mai riuscita a capire fino in fondo Nicole, e che forse, una volta che ci avesse lasciati in direzione di Bonifacio, non l’avrei mai più rivista. Pensai che non avevo il diritto di giudicarla. Pensai a come doveva essere stata la sua infanzia di ragazzina algherese trapiantata in una città e una nazione ostili verso gli altri, i diversi, i nuovi esiliati, come li voleva chiamare Jordi.
Li lasciai ai loro battibecchi e ai cretini tentativi di seduzione di mio fratello. Uscii sul ponte, la nave si era già staccata dal porto di Nizza, il vento mi entrava nei capelli.
Presi la lettera di Paul, era molto breve, quattro righe in un misto di francese e italiano, si chiudeva con un: “Adieu, Claudia!”. La lasciai volare come un piccolo gabbiano di carta.

Le ragioni didattiche
di questo libro

La Scuola Media N° 3 aderisce da diversi anni ad un progetto sperimentale di orientamento promosso dal Ministero della Pubblica Istruzione, dalla Regione Autonoma della Sardegna e dal Provveditorato agli Studi di Sassari: Progetto Sardegna Nord I 19 b.
Nel riferirsi agli obiettivi formativi indicati dalla Scuola nel Progetto Sardegna Nord Due e Sardegna Nord Tre per gli anni scolastici 1997/1998 e 1999/2000, la classe IIA ha inteso non solo conoscere la propria specificità culturale e linguistica ma anche aprirsi, con un atteggiamento di curiosità e di confronto, verso altre realtà dell’Europa e del mondo

Le fasi dell’attività
Sostenitore della scrittura creativa e collettiva, Antoni Arca, in qualità di responsabile degli interventi per l’area pedagogico-linguistica del Centro di Servizi Culturali Società Umanitaria, lo scorso anno scolastico, propose agli alunni della IIA la progettazione di un racconto per ragazzi. Punto di partenza: un loro testo, una loro idea.
I ragazzi scrissero pagine brevi o lunghissime ascrivibili ai generi letterari più disparati, dal fantasy alla fantascienza, dalla cronaca all’avventura, dal comico al giallo poliziesco.
Lo scrittore scelse quest’ultimo soggetto, non perché fosse il più riuscito, ma perché conteneva in sé ottimi spunti per costruire personaggi, ambienti, un tessuto narrativo.
Qualche giorno dopo, quel racconto divenne un possibile primo capitolo cui dovevano seguire tutti gli altri. Ognuno con le proprie capacità, i ragazzi accettarono la sfida e, nelle settimane seguenti, portarono in classe chi una, chi tre, chi oltre venti pagine di racconto sviluppato.
Il gioco era divenuto una cosa seria, con tanto di mistero, tensione e (doveroso) morto.
Si andò avanti così per settimane e mesi, con i ragazzi che leggevano le pagine restituite dallo scrittore e insieme decidevano quale personaggio sacrificare o far crescere e quale nuova avventura inserire. Così, senza una limitazione di tempi o di modalità di scrittura. Scrivere per divertirsi e farlo solo se ci si diverte davvero.
Nessuno dei ragazzi della IIA si è tirato indietro, tutti hanno partecipato con grande impegno e con la propria porzione di sapienza.
A detta dello scrittore, alcuni di loro gli sono già colleghi e, comprensibilmente, sono proprio quelli che in questo romanzo sono maggiormente sacrificati. Perché a seguirli nel loro personale “progetto di scrittura”, adesso non avremmo “un” romanzo per ragazzi, ma quattro, o cinque romanzi, non più collettivi, ma a “quattro mani”, le due di Antoni Arca e le due del singolo giovane scrittore o scrittrice della IIA.
A conclusone d’anno scolastico, la prima parte del libro è conclusa e ci si lascia con la promessa di continuare a pensarci durante l’estate.
Alla ripresa delle attività didattica, i lavori si fanno più tecnici. Non c’è abbastanza tempo per lasciare “libero” sfogo alla fantasia, il testo deve andare in stampa entro la primavera.
Si decide perciò di “chiudere” il progetto, di scomporlo ed affidarne i lavori a quattro diversi gruppi di ragazzi, poi sarà lo scrittore a rendere il tutto omogeneo e restituirlo alla classe per il collaudo finale.
Si procede ad assegnare “il furto dei gioielli e l’assassinio”, “le questioni sociali e i sans papiers”, “il viaggio finale”, “la maturazione di Claudia”.
Arrivati alla parola fine, il romanzo è certamente opera di Antoni Arca, ma i ragazzi riconoscono nelle battute, nei personaggi, in ogni pagina il prodotto della loro fantasia e si sentono pienamente coautori.
Qualcuno, come è naturale, esprime riserve per la scelta di un nome, la particolare soluzione di un evento, l’eccesso di presenza o l’uscita di scena di un personaggio, ma a nessuno di loro viene in mente di disconoscere la propria paternità, solo per questo.
Sono tutti concordi, invece, sulla storia d’amore transnazionale e consapevoli di avere partecipato a un gioco-impegno che li ha obbligati a riflettere sul loro stesso mondo così condizionato da letture, film e mode che non possono scegliere.

Maria Pina Sanna
Quarta di Copertina

La “scuola nuova” affida al docente d’italiano il compito di promuovere l’espressione spontanea di ogni alunno, potenziare la sua creatività. La vivacità di pensiero necessita di un ambiente educativo che ne faciliti lo sviluppo. Favorire la ricchezza interiore del ragazzo, motivarlo all’apprendimento, sviluppare conoscenze, autonomia personale ed equilibrio emotivo, significa non solo far conseguire le finalità formative generali e specifiche della disciplina, ma significa soprattutto promuovere l’uomo.
Già alcuni anni fa la nostra scuola ha sperimentato, con la classe IIE in collaborazione con lo scrittore Antoni Arca, responsabile degli interventi per l’area pedagogico-linguistica della Società Umanitaria, “Il laboratorio del libro”, avviamento alla lettura e scrittura creativa da cui nacque Buc.
Il riscontro positivo del “Laboratorio” ha indotto a ripercorrere un analogo itinerario che, consolidando le esperienze pregresse, accoglie oltre agli elementi della cultura e della lingua del territorio apporti di altre realtà.

Il Dirigente scolastico
Dott.ssa Gavina Casu

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