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Sardu

DA SARDEGNA: Mario BRAI "Briciole di terra"

Storia dell'isola di San Pietro attraverso le sue canzoni in tabarkino

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Premesso che un dialetto privo di tradizione scritta non può essere espresso su carta nella sua interezza, a meno di un appesantimento eccessivo della lettura, a causa degli accenti o del proliferare di vocali o consonanti, il tabarkino è del tutto simile al ligure, dal quale si differenzia leggermente per via della lunga separazione. Tuttavia in alcuni casi elencati sotto ho preferito una trascrizione "internazionale" a quella classica genovese, per rendere più semplice la lettura anche a un pubblico lontano dalla cultura ligure.
Il dialetto tabarkino fa uso di alcuni suoni che non sono presenti nella lingua italiana:

  • · tra le vocali:
    - il suono "eu" , come nel francese "feu" (fuoco) e nel tedesco "Köln" (Colonia); es. "euggi" (occhi), "feugu" (fuoco);
    - il suono "ü" , come nel francese "cru" (crudo) e nel tedesco "München" (Monaco); es. "crüu" (crudo), "müggiu" (molto); ·
  • tra le consonanti:
    - il suono "j" , come nel francese "jouer" (giocare); es. "geja" (chiesa), "vijìn" (vicino);
    - il suono "n-" come nell'inglese "-ing"; si deve cioè pronunciare una "n" impostando però la bocca come per pronunciare una "g" (sempre che ci si riesca...); es. "lun-a" (luna), "banchin-a" (banchina).

Inoltre, a differenza dell'italiano:

  • il suono š , come in "sciare", è utilizzato anche davanti alle consonanti, come nel tedesco "Spiel" (gioco); es. "šcò" (scala), "ašpetò" (aspettare);
  • la s dolce (o sonora) , come in "rosa", è indicata con la lettera z; es. "Zéna" (Genova), "zenà" (gennaio).

Per quanto riguarda gli accenti, sono stati usati nelle parole che presentano una notevole differenza con la pronuncia italiana, in alcuni dittonghi e allorquando si potesse creare confusione.
Nella traduzione dei testi ho cercato di restare il più fedele possibile all'originale anche per evidenziare la strutture costruttiva delel frasi, spesso curiosa e diversa da quella italiana.
Per chi fosse interessato ad approfondire l'argomento, consiglio di fare riferimento a uno dei libri citati nella nota bibliografica o, meglio ancora, di venire a trovarci a Carloforte!

CRONOLOGIA ESSENZIALE DELLE ORIGINI DI CARLOFORTE
(liberamente e parzialmente tratta da Carloforte storia di una colonizzazione di G. Vallebona)

 

1540
La famiglia dei Lomellini invia una colonia di Pegliesi a sfruttare il corallo sull'isola di Tabarka.
1736 Carlo Emanuele III, salito al trono, decide di infeudare i territori disabitati dandoli in concessione. Nell'estate dello stesso anno la notizia giunge a Tabarka e Padre Giovannini, missionario, riunisce i capifamiglia e propone l'isola di San Pietro perché "posta all'orlo della penisola sulcitana…mostravasi accomodata alle pose dei naviganti ed alle operazioni di traffico".
27-7- 1737 In seguito alle trattative proseguite da Agostino Tagliafico, maggiorente dei tabarkini, e dal Marchese della Guardia, l'isola viene concessa a quest'ultimo col titolo di Ducato a patto che accolga i Liguri.
17-10- 1737
Viene stabilito che in onore al Re Carlo Emanuele III l'abitato prenderà il nome di Carloforte.
22-2- 1738 86 persone con la tartana di Pier Giraud giungono in San Pietro ed iniziano la costruzione della prima casa. Successivamente un secondo gruppo di 302 persone arriva a Cagliari con un vascello svedese e la stessa tartana del Giraud.
17-4-1738 Sbarcano in San Pietro:
100 famiglie e 388 persone provenienti da Tabarka;
26 famiglie e 79 persone provenienti dalla Liguria, tra cui la famiglia di Segni, dalla quale nascerà On. Antonio Segni diventato presidente della Repubblica nel 1962;
2 primi curati;
per un totale di 469 persone.
18-6-1741 Alì Pascià Bey di Tunisi, con una spedizione di 300 uomini su 8 galeotte, arriva di sorpresa a Tabarka, s'impadronisce dell'isola, fa smantellare le fortificazioni facendo distruggere Chiesa, magazzini, e case e porta in prigione 840 tabarkini che rimarranno schiavi per 15 anni (al momento dell'invasione gli uomini erano in mare a corallare).
1744 Tentativo di impiantare una nuova colonia nell'isola, in regione Pescetti, con l'arrivo di 42 famiglie piemontesi, toscane e maltesi. Fallisce due anni dopo per malaria.
1750 Carlo Emanuele III riesce a liberare 121 schiavi mediante trattative tenute da Giovanni Porcile, Capitano della Regia Marina Sarda e tre anni dopo costui riesce a liberare altri prigionieri con lo scambio di prigionieri musulmani ceduti dal Papa.
1755 Il Bey di Tunisi, in occasione della morte di uno dei suoi figli, libera altri schiavi che si trasferiscono a Carloforte.
16-7-1786 E' posto sul piedistallo il monumento a Carlo Emanuele III, opera dello scultore genovese Bernardo Mantero, che verrà completato due anni dopo collocando ai lati del re uno schiavo turco e una schiava vestita alla cristiana con un figlio in braccio, a ricordare il concambio operato dal Porcile.
1792 La Repubblica Francese dichiara guerra al Re di Sardegna.
8-1-1793 Le truppe francesi occupano l'isola di San Pietro. In questo frangente la statua del re è stata sotterrata nella sabbia, ma nella fretta il braccio destro rimase fuori e si dovette così romperlo.
25-5-1793 Cacciata delle truppe francesi e occupazione dell'isola da parte delle truppe spagnole.
20-7-1793 La statua ritorna sul piedistallo.
23-9-1798 Sbarco improvviso dei Corsari nell'isola. Eccidio delle guardie (mustassaffo) alla gran torre e al Castello, invasione, devastazione e massacro. Nelle vie cadaveri di vecchi e bambini. 830 carlofortini portati in catene a Tunisi.
15-11- 1799 Nicola Moretto rinviene la Statua della Madonna su un albero di limone, simbolo della liberazione, e la porta a Tunisi al sac. Don Nicolò Segni.
Giugno 1803 Dopo transazioni e interessamenti da parte del Papa, della Turchia, della Russia, del re di Sardegna, del Duca di san Pietro e di Napoleone (che vuole e ottiene che siano restituititi i carlofortini appartenenti alla casata del Rombi) e dietro trattative del Porcile riacquistano la libertà i tabarkini ancora prigionieri Tunisi.
1810 Francesca Rosso diventa unica legittima sposa di Sidi Mustafà e prende il nome di Jenet Lela Beia; nello stesso anno diventa madre di Hamed, che diventerà Sidi Hamed Bey, "il Sardo".
1816 Con la Convenzione di Tunisi si mette fine alle operazioni piratesche e la vita a Carloforte può procedere abbastanza tranquilla.

PREMESSA

Da piccolo, andando in gita parrocchiale sulla madre isola, si intonavano canti e cori e gli autisti dei pullman esperti dicevano: "Voi carlofortini siete gente che canta bene". Crescendo, mi sono reso conto di questa peculiarità quando, trasferitomi a Cagliari, ho notato l'assenza di tradizioni canore, in particolare di quella delle serenate che ancora si cantano in paese: canzoni melodiche a più voci, accompagnate da qualche chitarra. Cosa strana, quasi nessuna di queste è in dialetto e poche scritte da autori nostrani. La canzone dialettale si riduce a qualche trallallero molto antico, risalente ai tempi nei quali i carlofortini vivevano sull'isola di Tabarka (dal XVI secolo). Da qui un enorme salto temporale porta al 1987, anno dell'istituzione del Festival delle Canzone Tabarkina. Da quell'anno sono state composte decine di canzoni in dialetto, che cantano dell'isola, dell'amore, dei marinai e delle loro donne, tutte melodiche e ispirate alla tradizione italiana e napoletana. L'eccezione è rappresentata dalle ballate della Joe Over Band (JOB), formazione tabarkina di rock-blues, e dalle canzoni afro-reaggae dei GIT o mediterranee dei Pangea, due gruppi cagliaritani con autore dei testi e cantante tabarkino, classificate sempre alle ultime posizioni del Festival, ma in vetta alle preferenze dei giovani isolani. Su queste concentreremo la nostra attenzione.

Dei tempi di Tabarka poco si sa con sicurezza, però pare certo che già nel '700 esistesse il "ballo tabarkino", suonato con chitarra, mandolino e violino, strumenti che già allora erano presenti sull'isola. Una volta trasferitisi sulla nuova isola, per i carofortini il ruolo ricreativo e socializzante della musica, in occasione delle festività religiose e civili, assunse un'importanza particolare, data la vita dura e le fatiche a cui la gente si sottoponeva per la bonifica dell'isola e la costruzione del paese. Quando, costruito il paese, la vita diventò appena più facile e gradevole, in occasione del 17 di gennaio (inizio del Carnevale) e della notte di San Giovanni, tra il 23 e il 24 giugno, si cantavano alcuni stornelli di origine ligure e piemontese:

O Cirullin

Oh Cirullin vattene 'n cà
oh Cirullin vattene 'n cà
oh Cirullin vattene 'n cà
che to mamma a t'ašpète!

Ti t'é lasciò bajò inta šcò
ti t'é lasciò bajò inta šcò
ti t'é lasciò bajò inta šcò
pe 'na palanca.

Ma chi t'à vištu u l'è u furnò
ma chi t'à vištu u l'è u furnò
ma chi t'à vištu u l'è u furnò
ch'eu l'éa de guòrdia.

A t'a lasciau u lümme inta šcò
a t'a lasciau u lümme inta šcò
a t'a lasciau u lümme inta šcò
cua porta averta.
Oh Curullin...

 

Oh Cirullin

Oh Cirullin vattene a casa
oh Cirullin vattene a casa
oh Cirullin vattene a casa
che tua mamma ti aspetta.

Ti sei lasciata baciare nella scala
ti sei lasciata baciare nella scala
ti sei lasciata baciare nella scala
per una palanca.

Ma chi ti ha visto è il fornaio
ma chi ti ha visto è il fornaio
ma chi ti ha visto è il fornaio
che era di guardia.

Lei ti ha lasciato il lume nella scala
lei ti ha lasciato il lume nella scala
lei ti ha lasciato il lume nella scala
con la porta aperta.

Oh Cirullin...
 


E disette de zenà

Ma l'è u dì de Sant'Antoniu
Ma l'è u dì de Sant'Antoniu
l'è e disètte de zenà
giobellà fradellà
l'è e disette de zenà.

Mamma mamma quande meuiu
mamma mamma quande meuiu
veštime da špusò
giobellà fradellà
l'è e disètte de zenà.

E mettème u büštu russu
e mettème u büštu russu
e e fadette de calancà
giobellà fradelà
l'è e disètte de zenà.

Gh'ea n'èrbu tantu grossu
gh'ea n'èrbu tantu grossu
che nisciün ghe peu arrivà
giobellà fradellà
l'è e disètte de zenà.

Gh'è arrivau u maištru Antoniu
gh'è arrivau u maištru Antoniu
e e ciü maie u s'ai ha piggiè
giobelà fradelà
e e ciü buzze u gh'ai ha lascè.
 

Il diciassette di gennaio

Ma è il dì di Sant'Antonio
ma è il dì di Sant'Antonio
è il diciassette di gennaio
giobellà, fradellà
è il diciassette di gennaio.

Mamma mamma quando muoio
mamma mamma quando muoio
vestitemi da sposa
giobellà, fradellà
è il diciassette di gennaio.

E mettetemi il busto rosso
e mettetemi il busto rosso
e le gonne di calancà
giobellà, fradellà
è il diciassette di gennaio.

C'era un albero tanto grosso
c'era un albero tanto grosso
che nessuno ci può arrivar
giobellà, fradellà
è il diciassette di gennaio.

C'è arrivato mastro Antonio
c'è arrivato mastro Antonio
e le più mature se le è prese
giobellà, fradellà
e le più acerbe ce le ha lasciate.

 

Gerumetta a l'ha trai fratelli
tütti trai sartuì
tütti trai sartuì Girumetta
tütti trai sartuì.

Ün u cüje, l'òtru u tagge
l'òtru u fa i gibbuin
l'òtru u fa i gibbuin,Gerummetta
l'òtru u fa i gippuìn.

Gerumetta a l'ha cento scudi
non li sa a chi dar
non li sa a chi dar, Gerumetta
non li sa a chi dar.

L'ojellin de lu verde bošcu
u l'ha a prejun jüau
u l'à a prejun jüau, Gerumetta
u l'à a prejun jüau

U l'è jüau insce 'na rametta
de lu maigranò
de lu maigranò, Gerumetta
de lu maigranò

U s'è ruttu 'na gambetta
l'òtra a ghe fa mò
l'òtra a ghe fa mò; Gerumetta
l'òtra a ghe fa mò

Ghe faiemu 'na süppettin-a
de lu pan grattau
de lu pan grattau, Gerumetta
de lu pan grattau.
Gerumetta ha tre fratelli
tutti e tre sarti
tutti e tre sarti, Gerumetta
tutti e tre sarti.

Uno cuce e l'altro taglia
l'altro fa i corsetti
l'altro fa i corsetti, Gerumetta
l'altro fa i corsetti.

Gerumetta ha cento scudi
non li sa a chi dar
non li sa a chi dar, Gerumetta
non li sa a chi dar.
L'uccellino del verde bosco
ha lasciato la prigione
ha lasciato la prigione, Gerumetta
ha lasciato la prigione

E' volato su un rametto
del melograno
del melograno, Gerumetta
del melograno

Si è rotto una gambetta
l'altra gli fa male
l'altra gli fa male, Gerumetta
l'altra gli fa male

Gli faremo una zuppettina
di pan grattato
di pan grattato, Gerumetta
di pan grattato.

All'inizio dell'Ottocento, il paese, nuovo di zecca, attraversa un periodo di crescita ed evoluzione, grazie alla grande laboriosità e intraprendenza dei suoi abitanti. Dal 1820 alla Prima Guerra Mondiale si ha il secolo d'oro di Carloforte. Insieme al benessere si diffuse la musica, soprattutto tra le famiglie borghesi, con l'arrivo del pianoforte (1850). Forse perché l'italiano era sinonimo di cultura e rango da questo periodo non si hanno tracce di canzoni dialettali. Sempre nella seconda metà dell'Ottocento si ha l'insediamento di una nutrita comunità campana, attirata dalla pescosità del mare. Il folklore e la musicalità di questa gente influenza quella dei residenti, ma fatto a dir poco incredibile per un popolo che notoriamente ama mantenere il proprio accento, nel giro di pochissime generazioni, come pure i sardi che arriveranno in seguito, abbandoneranno il loro dialetto per assorbire quello tabarkino. Apro una parentesi per accennare che il dialetto tabarkino ha mantenuto, grazie all'isolamento, le caratteristiche del ligure antico, e ricorda quello che ancora si parla sulle montagne della Liguria, dove il minor scambio ha portato a una conservazione dello stesso.
L'Ottocento è caratterizzato quindi dall'influenza di musiche importate, quali la romanza francese, la tradizione napoletana, ma anche dell'Italia centro-settentrionale (Toscana, Liguria, Piemonte, Veneto, Emilia), tutte culture che si incontrano andando per mare nel Mediterraneo. Cito alcuni brani: Sei bella sei splendida, Tramonto d'aprile, O mia Rosina, La spagnola, Mamma mia dammi cento lire, Aprite la finestra, Mi sovvien, Son suonate.
Nel '900 la musica dai salotti borghesi passa al dominio popolare, subendo l'influenza dell'operetta e della canzone italiana. Ne sono esempi Balocchi e profumi, Piccolo bimbo va, Chitarra romana, Miniera, Ma se ghe pensu, Mamma, Andiamo in gondola, Proibito, Sera d'agosto, Serenata delle serenate, Non t'affacciar e soprattutto C'è un'isola verde, che diventa il vero e proprio "inno nazionale" di Carloforte e che riporto qui, in via eccezionale, nonostante sia scritta in italiano, per l'importanza sentimentale che riveste per i carlofortini. Può sembrare strano, ma queste canzoni si cantano ancora oggi, e le ho cantate anch'io, con i miei amici, per strada nelle calme sere estive o primaverili, o durante le casciandre, allegre riunioni fra amici a base di arrosti e di canzoni.

C'è un'isola verde (A.Genise-A. Lama)

C'è un'isola verde lontana,
soggiorno di fate vezzose,
è tutto un giardino di rose,
un nido felice d'amor!

Su quella plaga azzurra,
al mormorio del mar,
vorrei vivere e sognar,
mia piccina, accanto a te!

Il sole, coi suoi raggi d'oro,
la veste di un fulgido manto,
il mare col flebile canto
la culla in un sogno d'amor!

Su quella plaga azzurra...

Deh, vieni a sognar in quel nido,
che amore nel mar ci compose...
per talamo avremo le rose,
per tenda l'azzurro del ciel!

Su quella plaga azzurra...

A questo periodo risalgono anche i primi autori tabarkini che però scrivono in italiano, non so se per essere capiti da un pubblico più vasto o per ostentazione di cultura, visto che il dialetto è ancora oggi parlato su ampia scala. Nella sua evoluzione il tabarkino è stato inevitabilmente influenzato, principalmente dall'italiano, ma anche, tenuto conto che fino agli anni '70-'80 la stragrande maggioranza della popolazione lavorativa maschile era composta da naviganti e pescatori, dai più svariati idiomi che la gente di mare incontra navigando. Qualche esempio:
- dall'inglese:
- "boss" (capo) "bossu" (trasformato dal tabarkino in: individuo servile,
tirapiedi del capo)
- "bag" (borsa) "bèga" (borsa)
- dal francese:
- "crochet" (uncinetto) "cruscé" (uncinetto)
- "boulanger" (panettiere) "bulanjé" (panettiere, anche se recentemente è
stato sostituito dall'italianizzato "panetté")
- dall'arabo:
- "barrakan" (stoffa grossolana "barracan" (pastrano)
o mantello fatto con la stessa)
- "ramadam" "ramadan" (trambusto)
- dal sardo:
- "simbulai" (scuotere, agitare) "scimbullò" (scuotere, agitare)
- "serraccu" (segaccio) "surraccu" (segaccio)
Negli ultimi anni poi il dialetto ha assorbito un gran numero di prestiti dall'italiano, che sono andati a sostituire i termini più antichi, in nome della "modernità": per esempio, "sciügaman" ha sostituito i due termini "macramé" (dal francese, che a sua volta lo aveva preso dall'arabo), ovvero l'asciugamano ricamato con le frange, e "canavassu", vale a dire la semplice salvietta di iuta.
Si arriva così al 1987, anno dell'istituzione del Festival della Canzone Tabarkina. Da questa data, ogni anno vengono prodotte decine di canzoni in dialetto per l'occasione, che hanno come denominatore comune una forte vena melodica ispirata alla melodia italiana del novecento Novecento, o, per i compositori più giovani, al Festival di Sanremo. I temi delle canzoni vincenti sono sempre legati alla bellezza della nostra isola verde o del mare cristallino, all'amore per l'amata, alla nostalgia per il paese com'era in passato o per qualche familiare lontano, alla vita sacrificata dei pescatori e dei naviganti e all'attesa delle loro donne sul molo... Le uniche eccezione sono rappresentate dalle canzoni della JOB, dei GIT e dei Pangea di Cagliari, nonché di Cesare Baghino, che collabora con la JOB e con l'autore.
Analizziamo ora alcuni dei testi scritti in questi anni. 250 anni fa, composta da G. Ferraro e A. Aste in occasione del 250º anniversario della fondazione di Carloforte, ricorda la dolorosa partenza da Tabarka e si diffonde in elogi dei carlofortini per la fondazione della loro città e delle sue bellezze.

Düjentusinquant'anni fa (G.Ferraro-A.Aste)

Pensa. Int'a tèra da vegia Tabòrka
i antenòti vegnüi da Pegi
travaggiòvan ma suffrivan e pregòvan de puàisene anò.
"Chì nu ghe štemmu ben! Sèrchemmu de partì! 'Na tèra pe nuiòtri a gh'è!"

Tèra de incantu, bella, tèra de seugni, de libertè,
cuèrta da'n verde mantu, bagnò da l'unda,
bajò dau su;
ti n'è accolti cun tanta buntè;
t'emmu dètu tüttu u noštru süu;
emmu fètu a geja, e chè pe puàighe štò.
Perla de ciü pressiuse, leugu de pòje, tranquillitè,
panuramma ridente, sirena che cante ai mainè
u l'è u me paize!

Quandu Tagliafico turnandu uì cunforte
c'u regallu d'u Re de Sardegna,
fešteggianti s'abbrassòvan,
ben cuntenti de puài vegnì chì:
vijìn ai proppri frè u paize cuštruì
e Carluforte u se ciammiò.
Tèra de incantu, bella, tèra de seugni.......

 

250 anni fa

Pensa. Sulla terra della vecchia Tabarka
gli antenati venuti da Pegli
lavoravano ma soffrivano e pregavano di potersene andare.
"Qui non ci stiamo bene! Cerchiamo di partire! Una terra per noi c'è!"

Terra d'incanto, terra di sogni, di libertà,
coperta da un verde manto, bagnata dall'onda, baciata dal sole;
ci hai accolto con tanta bontà;
ti abbiamo dato il nostro sudore;
abbiamo fatto la chiesa, le case per poterci stare.
Perla delle più preziose, luogo di pace, tranquillità,
panorama ridente, sirena che canta ai marinai
è il mio paese!

Quando Tagliafico tornando li conforta
con il regalo del Re di Sardegna,
festeggianti si abbracciavano,
ben contenti di poter venir qui:
vicino ai propri fratelli il paese costruire
e Carloforte si chiamerà.

Terra di incanto, bella, terra di sogni......

A Carloforte il turismo non è di massa per mancanza di strutture alberghiere e di mezzi di trasporto; c'è però una gran quantità di affezionati che tornano ogni anno dal "continente" e dall'estero e ogni fine settimana dalla "Sardegna". Questi vengono chiamati "furešti", forestieri, e molti sono affetti da un vero e proprio "male di S. Pietro". L'autore della canzone seguente è uno di questi.

 

Fureštu du Paize (N.Maraccini- A.Aste)

Mi vegnu c'u traghettu
a sàia de venerdì
ma da luntan me piggie
'na šmagna d'esse chì
l'è u su insci'u tramuntu
ch'u m'accumpagne in ca
e u cheu u s'allòrghe tantu
che cuscì u me fa cantò:

Fureštu du Paize
mi nu sun ciü
mi ascì me sentu tabarkin
cumme i òtri ancùn
me vegne da pensò
de esse cumme in cà me
me vegne da salüò
e gente cumme me frè.
Fureštu au Paize
nu, nu me séntu ciü.

Ma poi cuà dumenega
arrive l'ùa de partì
dau punte du traghettu
mi lasciu u cheu lì.
E allùa pensu au giurnu
a quande riturniò:
cun tanta nuštalgia
me vegne ancùn da cantò.

Fureštu au Paize nu, nu, mi nu sun ciü.

 

Forestiero a Carloforte

Io vengo col traghetto
la sera di venerdì
ma da lontano mi prende
la smania di essere qui
è il sole al tramonto
che mi accompagna a casa
e il cuore si allarga tanto
che così mi fa cantar:

Forestiero a Carloforte
io non sono più
anch'io mi sento tabarkino
come gli altri (ancora)
mi viene da pensare
di essere come a casa mia
mi viene da salutare
la gente come mio fratello.
Forestiero a Carloforte
no, non mi sento più.

Però con la domenica
arriva l'ora di partire
dal ponte del traghetto
io lascio il cuore lì.
E allora già penso al giorno
quando ritornerò:
con tanta nostalgia
viene ancora da cantar.

Forestiero a Carloforte
no, no, io non sono più.
 

U Paize, che vince il primo festival dell'87 è una dichiarazione d'amore nei confronti di Carloforte.

U Paize (G.Rombi- V.Basciu)

Tütti quanti han n'amù špeciòle
p'a proppria tèra, p'au proppriu paize
e šta cansùn a l'eu esse l'ešpresciun
de l'amù che mi ho p'àu me.

U Paize u l'è tütt'ün cun mi
u l'è štù paize ch'u m'ha dètu tüttu
u m'ha dètu a vitta, u Paize.

So a cà che m'ha ošpitau
so e brasse che m'han ninnau
so sun e štradde unde ho imparau a camminò
e dunde mi ho imparau a zügò.

U Paize...

Du me paize sun i figgieu
e i amiji che ho cunusciüu
so sun e špiagge, so u l'è u mò,
so sun i tramunti e tüttu quellu che fa batte u me cheu.

U Paize...

A chi me dumande: "De unde t'e?"
Mi ghe rešpundu: "Du paize ciü bèllu che gh'è!"
U l'è štu paize che m'ha dètu a primma cà,
u l'è štu paize ch'u me daiò l'ürtima cà.
U Paize...

 

Carloforte

Tutti quanti hanno un amore speciale
per la propria terra, per il proprio paese
e questa canzone vuole essere l'espressione
dell'amore che ho per il mio.

Carloforte è tutt'uno con me
è questo paese che mi ha dato tutto,
m'ha dato la vita, Carloforte.

Sua la casa che m'ha ospitato
sue le braccia che m'hanno cullato
sue sono le strade dove ho imparato a camminare
e dove ho imparato anche a giocare.

Carloforte...

Del mio paese sono i bambini
e gli amici che ho conosciuto
sue sono le spiagge, suo il mare,
suoi sono i tramonti e tutto quanto mi fa battere il cuore.

Carloforte...

A chi mi domanda: "Di dove sei?"
Io gli rispondo: "Del paese più bello che c'è!"
E' questo paese che mi ha dato la prima casa,
E' questo paese che mi darà l'ultima casa.

Carloforte...

 

Vegiu pešcau, vincitrice del festival dell'88, è una canzone alla memoria di un caro vecchio pescatore. Vegiu pešcau, vincitrice del festival dell'88, è una canzone alla memoria di un caro vecchio pescatore

 

Vegiu pešcau (A.Garau)

Me l'arregordu sùvia a banchin-a
ina mattin-a de trai anni fà
che ghe chiedaiva: "Cumm'u l'è u tempu?"
"Se m'appresente 'na bun-a giurnò"
e poi cu' e remme in špalla
u va vèrsu au canottu.
U l'ha brasse štanche, ma in grande cheu
štù poviau vegiu pešcau.

Se sà ch'a vitta a l'è in po' còa
inte quarche moddu bezeugna arundiò.
U me cuntòva: "Quant'abbundansa,
d'argentu vivu u l'éa riccu u mò!
Ma i tempi sun šcangè
nu ghè da štò ciü allegri,
me sentu štancu e u cheu u me dije:
't'è dètu tüttu de ti'."

Vegiu pešcau, dunde sun anèti a finì
i tempi buin che t'éi ancùn in zuenottu.
In mò, cun ti, i purpi e i zin n'àivan treggua.
Mentre ti u cunti se štrènze u cheu.
Me còu vegiu pešcau...

Se dije a votte che 'na mautia
inte 'n batte d'euggiu a te caccie zü in beu.
Mumenti trišti pe chi u so paize in ta so vitta
u nu l'ha mòi lasciau.

Mòi ciü cu' e remme in špalla;
ti t'é ašcurdau u canottu.
Int'a to ca che t'amòvi tantu
nu ti ghe ciü riturnau.

" Vegiu pešcau, d'unde sun anèti a finì
i tèmpi buìn che t'éi ancùn in zuenottu?
Ti che p'au mò, t'è špaizu tütta a to vitta
sulu in ricordu p'ai to t'e areštau. Addiu me vegiu pešcau.

 

Vecchio pescatore

Me lo ricordo sulla banchina
una mattina di tre anni fa,
gli chiedevo. "Com'è il tempo?"
"Mi si presenta una buona giornata."
E poi con i remi in spalla
va verso il canotto,
ha braccia stanche, ma un grande cuore
questo povero vecchio pescatore.

Si sa che la vita è un po' cara,
che in qualche modo bisogna arrotondare.
Mi raccontava: "Quanta abbondanza,
d'argento vivo era ricco il mare!
Ma i tempi son cambiati
non c'è da stare allegri,
mi sento stanco e il cuore mi dice:
'hai dato tutto di te'."

Vecchio pescatore dove sono andati a finire
i tempi buoni di quand'eri giovanotto?
In mare, con te, i polpi e i ricci non avevano tregua.
Mentre lo racconti si stringe il cuore,
mio caro vecchio pescatore...

Si dice a volte che una malattia
in un batter d'occhi butta giù un bue.
Momenti tristi per chi, il suo paese, nella sua vita
non l' ha mai lasciato.

Mai più con i remi in spalla;
ti sei dimenticato il canotto.
Nella tua casa che amavi tanto
non sei più tornato.

Vecchio pescatore, dove son finiti
i tempi buoni di quand'eri ancora giovanotto?
Tu che per il mare hai speso la vita
solo un ricordo per i tuoi sei rimasto.
Addio mio vecchio pescatore.

#9;Come si sarà potuto notare, le tematiche sono rivolte spesso alla nostalgia e agli elogi delle bellezze del nostro, peraltro bellissimo, "piccolo mondo". Questo avviene anche per gli allora teenagers compositori della prossima canzone che ricordano la loro vita da bambini e con questo brano vincono il Festival dell'89. La ragione del successo di queste tematiche risiede anche nel fatto che, come dice l'autore Giuseppe "Elvis" Leoni, "per vincere il festival bisogna accontentare le 'lalle'". Lalla e bòrba, letteralmente zia e zio, vengono usati più in generale per indicare una persona di una certa età e/o alla quale si è affettivamente legati.

A vitta du me paize (M. Leoni-G. Leoni-P. Ferralasco)

M'arregordu, da figgieu, insci'a caladda
a lensetta, a paštetta e u buggiüettu.
Me cacciòva da e tre ùe insci'u müettu
E sèrcòva de piggiò quarche pescettu.

Quande u su u lasciòva u poštu a lün-a
me šcangiòva e annòva a servì messa,
poi sciurtiva cu' i me amiji insci'a ciassa
s'ià passaimu a zügò a cavallassa.

Me vegne da pènsò cuss'ho fètu da figgieu,
ma u tèmpu u l'è jüau
e mòi ciü u turniò in deré.

Àua veddu i me pošti und'anòva a zügò
in tiu in porta, quarche botta e poi dagghe a šcappò
pe i carruggi du me paize.

Me vegne da pensò cuss'ho fètu da figgieu,
ma u tempu u l'è jüau
e mòi ciü u turniò in deré.
M'arregordu da figgieu insci'a caladda...

 

La vita del mio paese

Mi ricordo, da bambino, sulla banchina
la lenzetta, la pastetta e il secchiello.
Me ne stavo dalle tre sul moletto
e cercavo di prendere qualche pescetto.

Quando il sole lasciava il posto alla luna
mi cambiavo e andavo a servir messa
poi uscivo con gli amici in piazza,
passavamo il tempo a giocare a cavallassa.

Mi viene da pensare cos'ho fatto da bambino
ma il tempo è volato
e mai più tornerà indietro.

Adesso vedo i miei posti dove andavo a giocare,
un tiro in porta, qualche botta, e poi via a scappare
per i vicoli del mio paese.

Mi viene da pensare cos'ho fatto da bambino
ma il tempo è volato
e mai più tornerà indietro.

Mi ricordo da bambino sulla banchina....
Apro una parentesi introducendo una canzone genovese che è diventata l'inno di tutti i liguri, compresi quelli di terra sarda. Ma se ghe pensu racconta la storia di un emigrante, uno dei tanti liguri che andarono in Argentina, che dopo essersi sistemato, vuole tornare a "posare le sue ossa" a Genova.
Se pensate che in un'isoletta di 50 Km quadrati ci si sente come un biscotto inzuppato nel cappuccino, capirete quindi come un navigante tabarkino che gira tutto il mondo venga richiamato come da un elastico sul punto di partenza. La potente esigenza del ritorno e la nostalgia sono i concetti cardine di questa canzone che non potevano che essere recepiti in pieno dai carlofortini.

 

Ma se ghe pénsu ( M. Cappello-A. Margutti)

U l'éa partiu sensa 'na palanca
l'éa za trent'anni, foscia anche de ciü.
U l'éa turnau pe mette dinè in banca
pe puàisene in giurnu vegnì zü
e fòse a palassin-a e u giardinettu
cu' u rampicante, cu' a cantin-a e u vin,
a branda attaccò ai èrbui a üsu lettu
pe dòghe 'na šchenò sàia e mattin...
e u figgiu u ghe dijaiva: "Nu ghe pensò,
a Zena, cusse ti ghe veu turnò!"

Ma se ghe pensu allùa mi veddu u mà
veddu i me munti, a ciassa da Nunsià
riveddu u Righi e se me štrénze u cheu
veddu a Lanterna, a cava, lazzù u meu.
Riveddu a a sàia Zena illüminà
veddu là a Fuje e sentu franze u mà
e allùa mi pensu ancùn de riturnà
a posò e osse duve me muè a m'ha dunau.

E l'éa passau du tempu, foscia troppu,
u figgiu u l'inscištàiva: "Štemmu ben!
Dunde teu anò, papà, pensiemu doppu
u vièggiu, u mà, t'é vegiu nu cunvien!"
"O nu,o nu me sentu ancùn in gamba,
sun štüffu nu ne possu proppiu ciü!
Sun štancu de sentì: señor, caramba,
mì eugiu riturnòmene ancùn in zù...
Ti t'e nasciüu e t'è parlau špagnollu,
mi sun nasciüu zenaize e nu me mollu."

Ma se ghe pènsu allùa mi veddu u mà.......

E sènsa tante cose u l'éa partìu e a Zena u gh'ha furmau turna u so niu

 

Ma se ci penso

Era partito senza un soldo
eran trent'anni, forse anche di più.
Era tornato per mettere i soldi in banca
per poter, un giorno, "venire giù"
e farsi la palazzina e il giardinetto
col rampicante, con la cantina e il vino,
l'amaca appesa agli alberi come letto
per dargli una "schienata" sera e mattino...
e il figlio gli diceva: "Non ci pensare,
a Genova cosa ci torniamo a fare!"

Ma se ci penso allora vedo il mare
vedo i miei monti, la piazza dell'Annunziata
rivedo Righi e mi si stringe il cuore
vedo la Lanterna, la Cava, laggiù il molo.
Rivedo, la sera, Genova illuminata
vedo la Foce e sento frangere il mare
allora penso ancora di tornare
a posare le ossa dove mia madre mi ha donato.

Era passato del tempo, forse troppo,
il figlio insisteva: "Stiamo bene!
Dove vuoi andare, papà, ci penseremo dopo
il viaggio, il mare, sei vecchio, non conviene!"
"No, no, mi sento ancora in gamba,
son stufo e non ne posso proprio più!
Son stanco di sentir: señor, caramba
io voglio tornare ancora "giù"...
Tu sei nato e hai parlato spagnolo,
io sono nato genovese e non mi stacco."

Ma se ci penso allora vedo il mare...

E senza tante cose era partito
e a Genova ci ha rifatto il nido.

Per fortuna c'è anche chi se la prende più allegramente e scopre altri lati della tabarkinità, uno dei quali è il grande piacere e capacità di divorare enormi quantità di cibo di tutti i generi. La prossima spiritosa canzone racconta che, come si sa, con i tempi moderni e le comodità....., la gente vuole tutto pronto all'uso, cioè come si dice in carlofortino: "toa missa e gotti arrüjentè", ossia, tavola apparecchiata e bicchieri (già) sciacquati!

 

A toa missa (G.Damele Garbarino)

U mundu ancheu u s'è fètu vacansè
u pòrte in trenu, in nòve oppüre a pe:
in Fransa, in Cile, int'u Giappun u šgure
cumme annò a Maina o annò d'a Ture.
U vire u Louvre, u Prado, u Vatican
geje, pallassi, a Napuli a Millan...
Ghe ìnsce i pé, ghe vegne anche i špegetti;

u mange abbréttiu, sun düi i letti
èn giurni sensa pòje e fatighè
'na cosa sulu u seugne, e sài què a l'è?

Toa missa e gotti arrüjèntè
pe di morsci da tempu za amuè
in ribotta sià špassian ben ben
in mezu a tešti in mezu a tièn;
trai purchetti, due pisse, sei fainè
štocchefisciu e guresi a vuluntè
cu' e agušte e u cašcà se peu trincò
du bun nurògu e ramungiò
e se a sàia poi s'ha famme? Cusse gh'è?
Ma d'euve frìte de puelè...

U turne in po' cunfüsu e amminciunnau
sensa dinè de lungu e mò piggiau
che a digerì 'n po' tüttu de štu gìu
gh'eu quarche maize de bun regìu;
ma cu' i amiji au Paize e in libertè
u resciuiò ben sübetu. Perchè?

Toa missa...

E se a sàia ancùn s'ha famme? Cusse ghè? Ma pe šti béli... šciüppettè!

 

A tavola apparecchiata

Il mondo oggi s'è fatto vacanziero
parte in treno, in nave oppure a piedi:
in Francia, in Cile, in Giappone corre
come andare alla Marina o alla Torre.
Gira il Louvre, il Prado, il Vaticano
chiese, palazzi, a Napoli, a Milano...
Gli si gonfiano i piedi, gli vengono anche gli "špegetti"
mangia a casaccio, sono duri i letti
sono giorni senza pace e faticosi
una cosa solo sogna, e sapete qual è?

Tavola apparecchiata e bicchieri già sciacquati
per dei morsi da tempo già affilati
in "ribotta" si spassano ben bene
in mezzo a teglie, in mezzo a tegami;
tre porchetti, due pizze, sei farinate
stoccafisso e "guresi" a volontà
con le aragoste e il "cašcà" si può trincare
del buon nuragus e ramungiò
e se la sera si ha fame? Cosa c'è ?
Ma d'uova fritte delle padellate...

Torna un po' confuso e "amminchionato"
senza soldi, sempre, e mal combinato
che a digerire un po' tutto di questo passo
ci vorrà qualche mese di buon regime;
ma con gli amici a Carloforte in liberta si rinfrancherà ben presto. PerchePerché?

Tavola apparecchiata...

E se la sera ancora si ha fame? Cosa c'è?
Ma per questi stomaci... schioppettate!

Torniamo al convenzionale con Noštalgia, storia di un emigrante che per guarire dal "male di San Pietro" torna a vivere sull'isola.

 

Noštalgia (M.V. Caddeo)

In giurnu mi dau Paize sun partia
travaggiu nu ghe n'è, bezeugna anò.
E gambe ve cunfessu me tremòvan
ma insci'u traghettu mi me sun imbarcò.
E gente tütte inturnu m'ammiòvan,
e lògrime p'a faccia me currivan
ma nu ve štaggu certu chi a cuntò
cumme me sun duvüa adattò.

Carluforte pe ti ho 'na šmagna drèntu chi
a l'è 'na végia mautìa
a se ciàmme noštalgia
àua so cusse l'eu di.
Carluforte pe ti ho 'na šmagna drèntu chi
a l'è 'na végia mautìa
a se ciàmme noštalgia
chissà se puriò guarì?

Allùa da'n dotù mi sun anèta
e le u m'ha ditu. "Chi nu gh'ho maijin-a".
Bezeugna mette i pé insci'a banchin-a:
au Paize bezeugna riturnò."
A štatua a l'éa li ch'a m'ašpetòva
cu'e meze brasse foscia a m'abbrassòva...
Mi l'ho ammiò e gh'ho šchissau dell'euggiu
felice d'attruvòme insci'u me šcheuggiu.

Me viru, veddu l'èrcu cu'e šcalette,
in vegiu d'a so porta u fa e nassette.
Sun riturnò au me paize, nu pò auvéa,
pe mi l'è cummènsau 'na vitta neua.
I giurni da sittè sun òrmòi finii
tütti i ojelli turnan drèntu i so nii,
ma se in cunseggiu mi ve possu dò,
dau paize nu štève a alluntanò.

Carluforte pe ti mi sun riturnò cuscì.
Gh'ho rimissu 'na furtün-a
che me dàggan püre a lün-a
nu me moviò ciü de chi.
Carluforte pe ti ho delungu a šmagna chi
a nu l'è ciü 'na mautia
a nu l'è ciü noštalgia u l'è u ben che t'eugiu mi.

 

Nostalgia

Un giorno da Carloforte son partita
lavoro non ce n'è, bisogna andare.
Le gambe, vi confesso, mi tremavano
ma sul traghetto mi sono imbarcata.
La gente tutt'intorno mi guardava,
le lacrime per la faccia mi scorrevano,
ma non starò certo a raccontarvi
come mi sono dovuta adattare.

Carloforte per te ho una smania dentro me
è una vecchia malattia
si chiama nostalgia
adesso so cosa vuol dire.
Carloforte per te ho una smania dentro me
è una vecchia malattia
si chiama nostalgia
chissà se potrò guarire?

Allora da un dottore sono andata
e mi ha detto. "Qui non ho medicina.
Bisogna mettere i piedi sulla banchina:
a Carloforte bisogna ritornare."
La Statua era li che m'aspettava
con le mezze braccia forse mi abbracciava...
Io l'ho guardata e gli ho fatto l'occhiolino
felice di ritrovarmi sul mio scoglio.

Mi giro, vedo l'arco con le scalette,
un vecchio dalla sua porta fa le nassette.
Son ritornata al mio paese, non sembra vero,
per me è cominciata una vita nuova.
I giorni della città sono ormai finiti
tutti gli uccelli tornano nei propri nidi,
ma se un consiglio vi posso dare,
da Carloforte non vi dovete allontanare.

Carloforte, per te, io son ritornata così.
Ci ho rimesso una fortuna
che mi diano pure la luna
non mi muovo più da qui.
Carloforte per te ho sempre una smania qui
non è più una malattia
non è più nostalgia
è il bene che ti voglio io.

Un po' diversi i testi di E. Scotto che, curiosamente, scrive due brani con il titolo in italiano e storie che parlano di un amore romantico e passionale.

 

Essenza (E. Scotto/A. Napoleone)

T'ho za ditu che pe ti
faiè a pessi u sé.
Insce 'na via de nüvie
a noštra ca mi faiè
sèrcandu l'anima de chi,
inte 'na neutte sensa tempu,
u l'ha creau štù sentimentu.

Pensa in po' a mi
quande u feugu u va a durmì.
Pensa in po' a mi
quande cieuve dai barcuìn
quande e štelle asséndan l'òia
quande u seunnu u vinse ancùn
quande a jüe a noštra essensa
versu u noštru grande su.

T'ho za ditu che pe ti
daiè in sensu au veuu.
Int'e note du silènsiu
serenamente me abbrassiè
sèrcandu l'anima de ti
che int'u rešpiu du ventu t'è dètu vitta au noštru tempu.

 

Essenza

T'ho già detto che per te
farei a pezzi il cielo.
Su una via di nuvole
la nostra casa farei
cercando l'anima di chi,
in una notte senza tempo,
ha creato questo sentimento.

Pensa un po' a me
quando il fuoco va a dormire.
Pensa un po' a me
quando piove dai balconi
quando le stelle accendono l'aria
quando il sonno vince ancora
quando vola la nostra essenza
verso il nostro grande sole.

T'ho già detto che per te
darei un senso al vuoto.
Nelle note del silenzio
serenamente mi abbraccerei
cercando la tua anima
che nel respiro del vento
hai dato vita al nostro tempo.
 

Questa languida canzone è una lettera "spedita" da un nonno alla figlia emigrata in "continente"...

U figgiu cumm'u šta? (L. Paderas)

Quante votte nu so durante u giurnu
pensemmu tantu a ti e au to piccin.
Nu femmu che invucò u to riturnu,
e avàive finalmente a nüì vijìn.
Semmu che unde t'é pe ti a l'è noia,
ti t'è delungu u Paize drèntu au cheu,
Girin, Bobba, Caletta sun a to gioia,
ti ti gh'anòvi a štè insemm'a to seu.

U figgiu cumm'u šta, bellu piccin,
repensu quande a špassu in simm'au meu,
mi au purtòva štàndughe vijìn
e ogni tantu m'au štrènsàiva au cheu.
Me pò de véddau ch'u me porze e muèn
perché in brassu a mi u l'eu vegnì,
e mi gh'eugiu tantu, tantu ben
ridòva a le l'amù che ho dètu a ti.

Figgia còa gioia du me cheu
šta luntanansa a l'è 'na sufferensa,
ti manchi tantu a mi mamma a seu
però te pregu amù aggi passiensa.
U l'è in pensieru che ne da turmentu
savài che te cunsümmi ancùn de ciü,
curaggiu figgia che vegnò u mumentu
che riturniai pe nu lasciòne ciü.

Ne pò za tantu tempu che manchè
a noštalgia a ne štrügge ancùn de ciü,
se rivediemu certu quešta štè,
šperandu che nu ripartiài mòi ciü.
U figgiu cumm'u štà? ...

 

Il bimbo come sta?

Non so quante volte, durante il giorno,
pensiamo tanto a te e al tuo piccino.
Non facciamo che invocare il tuo ritorno,
e avervi finalmente a noi vicini.
Sappiamo che dove stai per te è noia,
che hai sempre Carloforte dentro il cuore,
Girin, Bobba, Caletta sono la tua gioia,
ci andavi l'estate assieme a tua sorella.

Il bimbo come sta ? Bel piccolino!
Ripenso quando a spasso in cima al molo,
io lo portavo standogli vicino
e ogni tanto me lo stringevo al cuore.
Mi sembra di vederlo che mi porge le mani,
perché in braccio a me vuole venire
e io gli voglio tanto, tanto bene,
ridavo a lui l'amore che ho dato a te.

Figlia cara, gioia del mio cuore,
questa lontananza è una sofferenza,
manchi tanto a me, a mamma e a tua sorella
però ti prego amore abbi pazienza.
E' un pensiero che ci da tormento
sapere che consumi ancor di più,
coraggio, figlia, che verrà il momento
che tornerete per non lasciarci più.

Ci sembra già tanto tempo che mancate
la nostalgia ci strugge ancor di più,
ci rivedremo certo, quest'estate,
sperando che non ripartirete mai più.

Il bimbo come sta?...

Quando i tabarkini approdarono in Sardegna, una parte di loro rimase in terra di Tunisia, schiava del Bey di Tunisi. Questi, una volta liberati, circa vent'anni dopo, andarono a fondare Calasetta sull'isola di Sant'Antioco, proprio di fronte a Carloforte, e Nueva Tabarka su un'isola a poche miglia al largo di Alicante, in Spagna. Questo mostra la grande ricerca dell'isolamento da parte di questo popolo un po' schivo e geloso delle sue usanze e tradizioni. L'isola spagnola non è ora più abitata stanzialmente ed i vecchi abitanti sono diventati a tutti gli effetti degli spagnoli, mentre Calasetta è ben viva e vegeta con i suoi graziosi e gentili abitanti che parlano il dialetto tabarkino, solo un po' più contaminato sia dall'italiano che dal sardo e piemontese per via dei maggiori scambi dovuti all'istmo che lega S.Antioco alla madre isola. L'influsso piemontese deriva dal fatto che, per fondare il paese, i Savoia mandarono un nutrito gruppo di coloni che, data anche l'affinità con la cultura ligure, si integrarono perfettamente nella comunità. Di Calasetta sono gli autori della canzone che, eseguita al violino dalla simpatica amica Noemi Cabras, è un inno a Carloforte e una dichiarazione di fratellanza fra i due popoli.

 

T'è Benejìa (N. Cabras-P.Puxeddu)

U Segnùn u t'ha benejìu
o Carluforte bella,
e u su ch'u te illümine
u fa de ti 'na štella.

I dialetti ch'emmu uguòli
fan di noštri populi
l'esempiu ciü bellu da noštra pòje.

Cantemmu insemme ina cansùn
isemmu l'uje cun forsa
accumpagnè da mujica e dau sun
o Carluforte bella.

U voštru animu gentile
u ve fa uài tantu ben
a sinfunia du voštru mò
all'illümine u cheu da voštra gente.

V'uèmmu ben carlufurtin
anche se u mò u ne sepòre.
V'uèmmu ben carlufurtin ve dedichemmu šta cansùn.

 

Sei benedetta

Il Signore ti ha benedetta
oh Carloforte bella
e il sole che t'illumina
fa di te una stella.

I dialetti che abbiamo uguali
fanno dei nostri popoli
l'esempio più bello della nostra pace.

Cantiamo insieme una canzone
alziamo la voce con forza
accompagnati dalla musica e dal suono
oh Carloforte bella.

Il vostro animo gentile
vi fa volere tanto bene
la sinfonia del vostro mare
illumina il cuore della vostra gente.

Vi vogliamo bene carlofortini
anche se il mare ci separa.
Vi vogliamo bene carlofortini
vi dedichiamo questa canzone.

Chiudiamo il piccolo campionario delle canzoni dialettali che potremmo definire "classiche da Festival della Canzone Tabarkina" ritenendo di aver dato un chiaro, anche se necessariamente sintetico, specchio della sensibilità di questa gente ed un quadro dei sentimenti che la muovono. Altri temi che si possono trovare nei brani più o meno affermati e popolari, e perlopiù espressi in chiave melodica, nostalgica e sentimentale, riguardano aspetti della vita (rapporti tra familiari, odi alle madri, problemi dell'educazione, ricordi del nonno o spaccati di vita familiare,...); nostalgia e questioni affettive legate al navigare; odi a spiagge o luoghi significativi dell'isola; storie d'amore o d'amicizia, in qualche caso tradite; vecchi, serenate e, forse un po' troppo spesso, ricordi. Vivendo su un'isola e di attività legate al mare, gli agenti atmosferici sono sempre presenti nel quotidiano e quindi in tutte le sue espressioni anche artistiche. Tra i più citati troviamo: il vento, sempre presente sull'isola; il cielo, quasi sempre stellato nelle canzoni d'amore; le nuvole e sempre il mare... grande ricchezza e allo stesso tempo portatore di disgrazie irreparabili nel confronti del quale ogni buon tabarkino nutre il massimo rispetto e che, forse non a caso, nella forma dialettale è omonimo di male (mò). L'ultima canzone di questa sezione, U l'è u Paize du Bengodi, è allegra e goliardica ed eseguita dal gruppo "Casciandra". Quest'ultimo è un gruppo di amici che si riunisce il sabato in casciandra quando rientrano alcuni di loro emigrati sulla madre isola. Infatti, da quando negli anni '80 ci fu una grande crisi occupazionale tra i lavoratori della marina mercantile, un numero sempre crescente di isolani si è rivolto alle recenti industrie ed enti esistenti in Sardegna per poter esprimere in molti casi la grande professionalità già acquisita sulle navi. Questa nuova categoria, nella quale sono incluso anch'io, fa spola con Carloforte ogni fine settimana, cambiando così i ritmi dei rapporti sociali in molte famiglie e gruppi di amici. Nella nuova situazione, pesantemente influenzata anche dall'avvento dei mass media, il paese sta fin troppo velocemente e caoticamente cambiando, senza che peraltro si possano intravedere nuovi e veri valori morali di riferimento. Questo non ha comunque intaccato la sana voglia del carlofortino di riunirsi davanti a un tavolo imbandito e cantare in coro!

 

U l'è u Paize du Bengodi (A. Cabula)

Quande Diu u l'ha creau u mundu
u s'ašcurdau 'na pria in man.
Nu savendu cusse fò
u l'ha apposò in mezu au mò.
Anni e anni sun passè
e nisciün s'è arregurdau
che in mezu a l'ègua sò
tra scìocchi, maištròli e lebecci
gh'è 'na tèra da recamò.

Ommi, donne, figgieu piccin
ghe vegnivan da luntan,
s'en rutti u collu sàia e mattin
e a pria in mezu du mò
u Paize du Bengodi a l'è diventò.

U l'è u Paize du Bengodi
pisse, fainè, sardèn-e ruštie
furni assàiji, barracche che fümme
e chitòre de lungu accurdè.

Se cummènse cu' E Disètte
se finisce p'au Bambin
e se sciopere i traghetti
e ne lascian isulè
chi prubblèmmi nu ghe n'è
se fa gente a deštra e a manca
tütti quanti a fò casciandra.

Int'u Paize du Bengodi
cu' a scivella de cašcà
štocchefisciu e baccalà
sèra tüttu e tia 'n tèra
ch'a giurnò ormòi a l'è fèta.

Semmu gente fèta cuscì
goda ti che godu mi
tütti insemme cantemmu cuscì.
U l'è u Paize du Bengodi
se ti ghe nasci nu te l'ašcordi.

 

E' il Paese del Bengodi

Quando Dio ha creato il mondo
s'è dimenticato una pietra in mano.
Non sapendo cosa fare
l'ha posata in mezzo al mare.
Anni e anni sono passati
e nessuno si è ricordato
che in mezzo all'acqua salata,
tra scirocco, maestrale e libeccio,
c'era una terra da ricamare.

Uomini, donne, bambini
che venivano da lontano
han faticato sera e mattina
e la pietra in mezzo al mare
il Paese del Ben Godi è diventata.

E' il Paese del Bengodi
pizze, farinate, sardine arrosto,
forni accesi, camini che fumano
e chitarre sempre accordate.

Si comincia con "Le Diciassette"
si finisce con Natale
e se scioperano i traghetti
e ci lasciano isolati
qui problemi non ce n'è,
cerchi gente a destra e a manca
tutti quanti a far "casciandra".

Nel Paese del Bengodi
con la "scivella" di "cascà"
stoccafisso e baccalà
chiudi tutto e tira (la barca) a terra
che la giornata ormai è fatta.

Siamo gente fatta cosi
godi tu che godo io
tutti insieme cantiamo così.
E' il Paese del Bengodi
se ci nasci
non lo scordi.

Tutt'altro discorso vale per le canzoni seguenti, scritte e interpretate da giovani che dall'87 in poi hanno cercato di rompere con la tradizione. Il primo esponente di questa corrente a scrivere in dialetto è stato Battista Dagnino, chitarrista e cantante della JOB. Il brano presentato al Festival nell'88 è L'ommu u l'è štancu, classificatosi tra le ultime posizioni, ma rimasto nella cultura giovanile dell'isola è cantato ancora oggi dalle nuove leve. Sviluppato su una base di ballata blues, il testo affronta un tema molto attuale, il crescere e diventare uomo a Carloforte, con tutte le esperienze dal seno della madre alla scuola, al militare, ai vizi, alle donne, all'abbattimento e lo sconforto nel passare dalla bambagia della pubertà alle lusinghe e ai tranelli del mondo.

 

L'ommu u l'è štancu (B.Dagnino)

Bellessa quande da figgieu
t'addurmivi in brassu a to muè,
allùa a tešta l'éa veua,
nu gh'éa ne invernu ne štè.

A primma nüvitè a l'è a šcheua
dunde i anni passan e nu te pò mancu au véa,

t'uésci šcangiò e regule e u votu,
ma t'incumènsi a capì
che nu gh'è ninte au so poštu.

In mésu a tütte e passadde de botte che te dè foscia l'è mégiu ammiò e gambe de donne,

tütte 'nsemme, quante ghe n'è,
e li u l'è u primmu šbagliu
dunde t'incumènsi a perde a tešta
e a dumenega, 'nuntre che satò u raštellu,
ti sòti anche a messa,
ti sòti anche a primma messa,
ti sòti anche a messa.

E allùa? ...Passiensa!
Vegne u mumentu che šcange tüttu,
c'u militòre
unde tütti te sun cùntra, nu ti sé ciü cùsse fò
cuscì te piggi i vissi,quelli ch'euan esse paghè

int'u mumentu šbagliau, proppriu àua...
quande t'e sensa dinè....

E allùa? ...Passiensa!
Ti finisci che t'è dètu tüttu
sènsa turnacuntu.
Te 'ncassi cun tütti i cunservatui de šta tèra e de štù mundu,
t'uésci šcangiò de neuu quarcosa, ma...
ma i carrùggi èn fìssu i štessi
unde t'ammìan mò perché de sàia
ti porti i špegetti....
pe 'n pò de špegetti...
Ma liòtri nu s'ammìan?
Gh'han i paraeuggi!

L'ommu u l'è štancu e u cante pe ti,
pe ti che ti štè sitta
ma 'n fundu tià pensi cuscì, cumme mi.
L'ommu u l'è štancu e u seunne pe ti,
e u špere che se rumpe a reua:
"Belli zoni! Se sémmu rutti u viu... se sémmu rutti u viulin!"

 

L'uomo è stanco

Che bello quando da bambino
ti addormentavi in braccio a tua madre,
allora la testa era vuota,
non c'era né inverno né estate.

La prima novità è la scuola
dove gli anni passano e non te ne accorgi nemmeno,
vorresti cambiare le regole e il voto,
ma incominci a capire
che non c'è niente al suo posto.

Tra tutte le zuffe che fai
forse sarebbe meglio guardare le gambe delle donne,
tutte insieme, quante ce n'è,
e quello è il primo sbaglio
dove inizi a perdere la testa
e la domenica, oltre a saltare il cancello
salti anche la messa,
salti anche la prima messa,
salti anche la messa.

E allora? ...Pazienza!
Viene il momento che tutto cambia
con il militare
dove tutti ti sono contro, non sai più cosa fare
così ti prendi i vizi, quelli che poi vogliono essere pagati
nel momento sbagliato, proprio adesso...
quando sei senza soldi...

E allora? ...Pazienza!
Finisci che hai dato tutto
senza tornaconto.
Ti incazzi con tutti i conservatori di questa terra e di questo mondo,
vorresti cambiare di nuovo qualcosa, ma...
ma i carruggi sono sempre gli stessi
dove ti guardano male perché di sera
porti gli occhiali da sole...
per un paio di occhiali da sole...
Ma loro non si guardano?
Hanno i paraocchi!

L'uomo è stanco e canta per te,
per te che te ne stai zitta
ma in fondo la pensi così, come me.
L'uomo è stanco e suona per te,
e spera che si rompa la ruota:
"Ragazzi! Ci siamo rotti il vio...
ci siamo rotti il violino!"

Una delle cose dialettali più interessanti di quel periodo della JOB fu un adattamento in chiave funky delle storiche E disètte de zenà e Non mi mandar più lettere, dal titolo Gh'ea n'èrbu. E de pàule 'na cuffa, invece è una bella ballata mediterranea, nata in occasione della prima (e unica) tourné della JOB in continente. Nel settembre del lontano 1988 andammo infatti a suonare a Grottaferrata sui Castelli Romani e al Forte Prenestino a Roma. Avremmo dovuto fermarci quattro giorni, ma qualcuno di noi, come il sottoscritto e l'autore della canzone, rimasero tre settimane ospiti di alcuni che sono diventati nostri amici: Manfred, Lorena, Gianni il Tettaio, er Roscio, Debora, suo fratello Fabio, Fausto il Porchettaro... Gente veramente calda e genuina, che ci fece sentire a casa e che non dimenticheremo mai. Questa canzone è dedicata a loro.

 

E de pàule 'na cuffa (B.Dagnino)

Quande i to pe cammin-an nüi,
insce n'òtra tèra
luntan da giurni da štrasse,
a l'è 'na fùa ca l'è véa
e te rìe primma i euggi
ch'a to bucca russa
perché che belle, belle facce da parlòghe
e de pàule 'na cuffa

RIT. E de pàule, de pàule,
e de pàule 'na cuffa

Quande e to muèn bagnè
tuccan a so gianca pelle
accumpagnè dàu vin,
vegne russe anche e còse de uégge
te vegne u fràidu e ti l'ammìi, bella, sensa dì nìnte
Se brille i euggi nu serve e pàule,
nu serve e pàule p'accàpise

RIT. Nu serve e pàule, nu serve,
nu e serve pàule p'accàpise

E se fa fešta a lün-a
cun di canti antighi
che te turne u surrisu quande l'induman ti ì šcrivi
E nu šta a pensò au giurnu
che t'è da fò u biggettu
ch'a saudade a saudade a te pigge
anche se t'è cun le 'nsci'u lettu.

RIT. Anche se t'e cun le 'nsci'u,
anche se t'e cun le 'nsci'u lettu

E quelli suìn de chitòra
m'ài arregordu ancùn àua,
quell'odù de sasisse e de fümme
cun šté gente da casciandra.

RIT. Cun šte gente, šte gente,
cun šte gente da casciandra

Che pasa chico che pasa,
cùsse te passe p'a tešta
Che pasa chico che pasa,
cùsse te passe p'a tešta Ti sàisci che gente, oh, ti sàisci che gente!

 

E di parole una cesta

Quando i tuoi piedi camminano, nudi,
su un'altra terra
lontani dai giorni "da stracci",
è una favola vera
E ti ridono prima gli occhi
della tua bocca rossa
perché che belle, belle facce da parlargli
e di parole una cesta

RIT. E di parole, di parole
e di parole una cesta

Quando le tue mani bagnate
toccano la sua bianca pelle,
accompagnate dal vino,
diventano rosse anche le attaccature delle orecchie
Ti viene freddo e la guardi, bella, senza dir niente.
Se ti brillano gli occhi non servono
non servono parole per capirsi

RIT Non servono parole, non servono,
non servono parole per capirsi

E si fa festa alla luna
con dei canti antichi
che ti torna il sorriso quando l'indomani li scrivi
E non pensare al giorno
che dovrai fare il biglietto che la saudade, la saudade ti prende,
anche se sei con lei sul letto.

RIT. Anche se sei con lei sul
anche se sei con lei sul letto.

E quei suoni di chitarra
me li ricordo ancora oggi
quell'odore di salsiccia e di fumo
con questa gente da baldoria.

RIT. Con questa gente, questa gente,
questa gente da baldoria

Cosa succede, chico, cosa succede,
cosa ti passa per la testa
Cosa succede, chico, cosa succede,
cosa ti passa per la testa
Sapessi che gente, oh, sapessi che gente!
Segue Neutte persa. Antefatto: una notte, dopo il veglione di Carnevale, gli amici sono parcheggiati in macchina come al solito, di fronte alla piazza, ad ascoltare musica, per fare orario. Non hanno soddisfatto i loro "appetiti". A quel punto, compare una figura di donna...

 

Neutte persa (B.Dagnino)

Neutte prufunda, neutte infernòle,
neutte da štrasse 'n tèra, neutte da carlevò.
Neutte sèrcandu la 'n fundu u nemigu inte l'umbra
Chissà che trappula a l'è? Me sòrvu. Veddu 'na biunda!
A neutte a l'è lunga, òtru zeugu nu gh'è
M'ià tentu cu'a biunda. Chissà che tipa a l'è?

Foscia a l'ha i euggi celesti e u nasin a fransaize,
in bellu russettu insc'i lèrfi,
trüccu in po' štravagante
Sutt'a quellu cappottu nàigru, cuss'a l'ašcundiò?
Següamente delüsa, l'aviòn da pocu mullò!
A l'è n'occajun da nu perde. A s'eu pe forsa rifò
Bezeugna che faggu quarcosa per fòia affermò

Per mettime in muštra, pe fòme ciü grande
aumentu u vulümme da müjica, ghe piotu in po' e gambe
Le a se n'accorze, a s'affèrme. Ollé! Ghe l'ho fèta!
Però! Che gambe mò fète, àua ch'ài veddu ben!
Le a se vire, a m'ammie, u šteummagu u s'enverse. Cun 'na tipa cuscì, figgieu, a l'è sulu 'na neutte persa.

 

Notte persa

Notte profonda, notte infernale,
notti da stracci per lavare in terra, notte da carnevale
Notte cercando, là in fondo, il nemico nell'ombra
Chissà che trappola è? Mi salvo. Vedo una bionda!
La notte è lunga, altro gioco non c'è
me la tento con la bionda. Chissà che tipa è

Forse ha gli occhi celesti e il nasino alla francese
un bel rossetto sulle labbra,
un trucco un po' stravagante
Sotto quel cappotto nero, cosa nasconderà?
Sicuramente delusa, l'avranno da poco mollata
E' un'occasione da non perdere. Si vorrà per forza rifare.
Bisogna che faccia qualcosa per farla fermare.

Per mettermi in mostra, per farmi più grande
aumento il volume della musica, le sbircio un po' le gambe
Lei se ne accorge, si ferma. Evviva! Ce l'ho fatta!

Però! Che gambe malfatte, ore che le vedo bene!
Le si gira, mi guarda, lo stomaco mi si rivolta.
Con una tipa così, sarebbe solo una notte persa.
Infine Dème 'na fursin-a, una canzone d'amore e di casciandra. Scritta nella nostra "tana", la campagna del Gioia di Battista Ferraro (il bassista della JOB), con l'amico Sasha e compagnia. Tra una forchettata e l'altra balena in testa il proprio amore che, essendo lontano, non ti lascia tranquillo.

 

Dème 'na fursin-a (B.Dagnino)

A vitta a l'è cürta e štròna,
chi l'eu crüa e chi l'eu cheutta
ma a méjima toa de vigna e quarche galletta...

A me višta a nu s'è persa
cu' i so lèrfi cu da sersa,
passe u tempu e se ghe pensu...
euttu giurni ancùn cuscì.

Fra lümasse e sigarette
cu' i segundi faggu a botte,
ma a me šprescia a l'è ca cresce
e nu gh'ia faggu ciü.

RIT. Dème 'na fursuin-a e 'n cutellu che tàgge
che u so cheu eugiu affettò pe puài rešpiò.

Dème 'na fursin-a, 'na fursin-a e in cüggiò

ch'a lün-a a l'è pin-a e me l'oriè mangiò.

Gh'éa in sé pin de štelle
e nu štòva int'a pelle
u Grillu cu cantòva e le lenta a se n'anòva.
Ašpetémmu a lun-a neua
ma šta štansia a l'è ciü veua,
se cuntémmu menu fùe,
s'è za 'n lettu p'ai du ùe.
Šcange u tempu šcange u mundu,
šcange e neutti e u neuu giurnu
ma i trai quattru semmu chi,
che s'ià sünemmu tütti dui.

RIT. Dème 'na fursuin-a e 'n cutellu che tagge
che u so cheu eugiu affettò pe puài rešpiò.

Dème 'na fursin-a, 'na fursin-a e 'n cüggiò
ch'a lün-a a l'è pin-a e me l'oriè mangiò.

Int'a lampa in po' de vin, e in tundu pin de ti... Int'a lampa in po' de vin, e in tundu pin de ti...

 

Datemi una forchetta

La vita è corta e strana,
chi la vuole cruda, chi la vuole cotta
ma la medesima tavola di campagna e qualche galletta...
La mia vista non si è persa
con le sue labbra color del gelso,
passa il tempo e se ci penso...
otto giorni ancora così.

Fra lumache e sigarette
con i secondi faccio a botte
ma la fretta sta crescendo
e non ce la faccio più.

RIT. Datemi una forchetta e un coltello che tagli
che il suo cuore voglio affettare per poter respirare
Datemi un forchetta, una forchetta e un cucchiaio
che la luna è piena e me la vorrei mangiare.

C'era un cielo pieno di stelle
e non stavo nella pelle
Grillo che cantava, e lei lenta se ne andava.
Aspettiamo la luna nuova
ma questa stanza è più vuota,
ci raccontiamo meno favole,
si è già a letto per le due.
Cambia il tempo, cambia il mondo,
cambiano le notti e il nuovo giorno
ma i "tre-quattro" siamo qui,
che ce la suoniamo tutti e due.

RIT. Datemi una forchetta e un coltello che tagli
che il suo cuore voglio affettare per poter respirare.
Datemi un forchetta, una forchetta e un cucchiaio
che la luna è piena e me la vorrei mangiare.

Nel bicchiere un po' di vino, e un piatto pieno di te...
Nel bicchiere un po' di vino, e un piatto pieno di te...
Arriva ora il mio momento. Nell'80 mi sono trasferito a Cagliari per l'università e poi a lavorare. Nell'87 nascono i GIT (Gruppo di Improvvisazione Trascendentale), nei quali milito prima come violinista, poi, per necessità, come cantante e autore anche dialettale. Il primo pezzo in dialetto, Oh amigu ma, risale all'89 e fu il più apprezzato tra quelli sfornati dal gruppo allargato "GIT et les Poulettes" e proposti nelle numerose serate in giro per la madre isola. Particolare curioso è che il brano non è stato suonato a Carloforte se non molti anni dopo dalla JOB quando ormai i GIT si erano sciolti.
La melodia si svolge su una base afro e si distingue da tutte le altre canzoni per il sapore e suono africano di queste parole in dialetto tabarkino. Il pezzo è giocato sull'omofonia delle parole tabarkine "unda" (onda) e "und'a" (dove, quando il soggetto della frase è femminile) e racconta di un uomo in evidente crisi esistenziale che va in riva al mare e gli parla come fosse un amico...

 

Oh amigu mà (M.Brai)

Und'a l'è a me unda, und'a l'è a me unda, und'a l'è?
Unda, a l'è a me unda, a l'è a me unda, und'a l'è?

Oh amigu ma, und'a l'è a me unda? Und'a l'è?
Oh amigu ma, que'u l'è u me amu? Que'u l'è?
Oh amigu ma, und'a l'è a me unda, que'a l'è?
Oh amigu ma, que'u l'è u me amu, und'u l'è?
Und'a l'è a me unda...

 

Oh amico mare

Dov'è la mia onda, dov'è la mia onda, dov'è?
Onda, è la mia onda, è la mia onda, dov'è?

Oh amico mare, dov'è la mia onda? Dov'è?
Oh amico mare, qual è il mio amore? Qual è?
Oh amico mare, dov'è la mia onda? Qual è?
Oh amico mare, qual è il mio amore, dov'è?

Dov'è la mia onda...
La ricerca in questo campo continua con la canzone Sciccumm'a l'è, scritta per la mia grandissima amica Antonella Nieddu. Il tema si sviluppa su base afro-araba dettata dal tocco sempre aggraziato della chitarra di Nico Meloni, fondatore dei GIT. Anche questo brano si differenzia dalle altre canzoni carlofortine essendo molto più ritmico e meno melodico.

 

Sciccumm'a l'è... (M.Brai)

E sciccum'a l'è
int'e brasse du mundu anche lé
e scicumm'àu so
che na cosa següa nu ti l'è
e sciccumm'a l'è
u riflessu de cose che gh'è
e sciccumm'àu so
che ti majigni in müggiu in guentéa,

allùa diggu che
s'ia tegnimmu cumm'a l'è
allùa mi te diggu che
s'ia tegnimmu cumm'a l'è
sià tegnimmu cumm'a l'è.

Cusse t'è? Cusse gh'è? Boh, n'u so!
Cusse t'è? Cusse gh'è? Boh, n'u so!
Cusse t'è? Boh! Cusse gh'è? N'u so!
Cusse t'è? Boh! Cusse gh'è? N'u so!

Àua naigru, poi giancu, doppu giònu e ancùn russu.
Ti pòrli e ti pensi a òtri mumenti.
Se te se cuštrènze ti štreppi a baderna
ti te ìsi e ti vè
t'é cèa cumme l'ègua a to pàula a l'è: boh, boh boh, boh, boh n'u so!

 

Siccome è...

E siccome è
nelle braccia del mondo anche lei
e siccome lo so
che una cosa sicura non ce l'hai
e siccome è
il riflesso delle cose che esistono
e siccome lo so
che "macini" molto volentieri,

allora dico che
ce la teniamo com'è
allora io ti dico che
ce la teniamo com'è
ce la teniamo com'è.

Cos'hai? Cosa c'è? Boh, non lo so!
Cos'hai? Cosa c'è? Boh, non lo so!
Cos'hai? Boh! Cosa c'è? Non lo so!
Cos'hai? Boh! Cosa c'è? Non lo so!

Adesso nero, poi bianco, dopo giallo e ancora rosso.
Parli e pensi ad altri momenti.
Se ti si costringe tagli la corda
ti alzi e te ne vai
sei chiara come l'acqua.
La tua parola è: boh, boh boh, boh, boh non lo so!
Sul filone delle precedenti, Allè figgieu è stata presentata al festival nel '91, la prima e ultima volta dei GIT a Carloforte. Classificata malamente, forse per le voci stridenti delle Poulettes e sicuramente per la difformità dalla tradizione melodica. E' un incitamento a fare canzoni accompagnata da una riflessione sulle cose della vita.

 

Allé figgieu! (M.Brai)

Allé, allé figgieu!
Allé démughe drèntu a fò a cansuìn!
Allé, allé figgieu!
Allé nu štà a pensòghe e šcriva
quellu che te sciorte dau cheu
Allé... allé

Passò e ùe a virò e cose
p'attruvòghe l'incaštru
che séggian pessi de legnu o amuì
u travaggiu u lè u štessu... štessu zeugu!

Cu'a chitòra a l'è a mèjima cosa:
e vira e note fàiai ballò
e vira e note fàiai ballò
e vira e note fàiai ballò
èn li che sòtan e mi cun lu.
Allé, allé figgieu...

 

Alé ragazzi!

Alé, alé ragazzi!
Alé diamoci dentro a far canzoni!
Alé alé ragazzi!
Alé non pensarci e scrivi
quello che ti esce dal cuore
Alé... alé!

Passar le ore a girar le cose
per trovarvi l'incastro
che siano pezzi di legno o amori
il lavoro è lo stesso... stesso il gioco!

Con la chitarra è la medesima cosa:
gira le note falle ballare
gira le note falle ballare
gira le note falle ballare
son lì che saltano e io con loro.

Alé, alé ragazzi...

La JOB è una band a corrente alternata per via delle continue partenze di Antonello "Frank" Coppola (batteria) e Dagnino a navigare. Nel frattempo quelli che sono sull'isola non possono far altro che continuare a suonare, e nel '90 nasce U cheuttu e u crüu, firmata Cesare "Vasco" Baghino-Mario Brai e suonata al festival col gruppo in versione allargata all'autore e alle fidanzate-coriste Silvia Fiaschi e Lina Comparetti, nonché al grande amico percussionista Riccardo Loi. Qui si vede la prima svolta verso la musica mediterranea con melodie, ritmiche e voci arabeggianti. Si classifica nelle solite posizioni, salvo serbare anni dopo qualche sorpresa essendo ripescata dal gruppo cagliaritano Pangea. Il testo si rifà ad un episodio della storia carlofortina, quando i mori (i "türchi") saccheggiarono il paese. Gli invasori entrarono nel borgo grazie alla "soffiata" di un caprese che aveva vissuto qualche tempo sull'isola, prima di passare ai musulmani, cambiando il suo nome in Mammeluch. Questi nutriva sentimenti rancorosi verso i tabarkini per essere stato rifiutato da una donna e deriso dal paese. La leggenda narra di come, fra le lacrime e le catene, una delle case fosse stata risparmiata, perché il capofamiglia aveva ucciso un tunisino e ne aveva messo il corpo di traverso sull'uscio, essendo a conoscenza di una superstizione musulmana che impediva l'ingresso in un'abitazione segnata in questo modo. La moglie dell'uomo, incinta, riuscì quindi a salvarsi e, dopo qualche tempo, diede alla luce una figlia che chiamò Liberata, paradossalmente "figlia" del fucile che aveva ucciso. Da questo si prende spunto per sottolineare le contraddizioni che talvolta ci sono nell'educazione tradizionale perbenista.

 

U cheuttu e u crüu (C. Baghino-M.Brai)

Se te tuccan cun 'na man,
nu šta a fò u loccu che t'àu turnan a fò!
Se te tuccan sulu cu' in diu,
piggia u baccu e dagghe u cheuttu e u crüu!

Dije dije u babbu au figgieu,
poi u va in géja a fòse cunfessò

"Oh mamma mamma" - " Dimme figgieu"
"Cuss'ho da fò sun prejuné"
"Oh figgiu, figgiu"
"Oh mamma, ma... ma cusse gh'è?"
"Ma nu ti veddi šte cadèn-e?
Ma nu ti veddi šte cadèn-e?"
"Oh figgiu, figgiu"
"Oh mamma, ma... ma cusse gh'è
"Ma nu ti veddi šte cadèn-e?
Ma nu ti veddi šte cadèn-e?"

Ma quante sémmu tra donne e figgieu,
che 'n te šta bòrca n'han càrregau,
cumm'han attruvau u passu p'entrò?
U l'è u furèštu cu i ha guidè!
Pe 'na donna c'u l'ha osciüu,
pe 'na donna c'a nu l'ha ösciüu
pe quella dešgrassiò c'a s'è negò...

Oh mamma, Mammeluch! L'arrive i Türchi!
L'arrive i Türchi, l'arrive i Türchi!
Ne sun vegnüi a piggiò, oh mamma, e mi che curpa n'ho?
Oh mamma e mi che curpa n'ho?

Oh mamma, Mammeluch! L'arrive i Türchi!
L'arrive i Türchi, l'arrive i Türchi!
Ne sun vegnüi a piggiò, oh mamma, e mi cuss'ho da fò?
Oh mamma e mi cuss'ho da fò?

E mi figgieu cusse te possu di,
ho vištu muì ho vištu brüjò
e mi figgieu cusse ghe possu fò,
tutti i rišpòrmi n'han purtau via
n'han purtau via...

Oh mamma, Mammeluch! L'arrive i Türchi!...

E poi, l'è nasciüa 'na figgetta...,
e poi l'è nasciüa Liberata
figgia du šceuppu, cu l'ha šparau,
e u l'ha ammassau ... e u l'ha ammassau.

E pe chi nu cunusce a štoria,
e pe chi n'ha accàpiu u dešcursu
l'è cumme u babbu cu dije au figgiu,
primma d'anò a fòse cunfessò:

"Se te tuccan cun 'na man,
nu šta a fò u loccu che t'au tùrnan a fò!
Se te tuccan sulu cu' in diu,
piggia u baccu e dagghe u cheuttu e u crüu! U cheuttu e u crüu, e dagghe u cheuttu e u crüu!"

 

Il cotto e il crudo

"Se ti toccano con una mano,
non far lo stupido, o te lo fanno di nuovo!
Se ti toccano anche solo con un dito,
prendi un bastone e dagli il cotto e il crudo!"

Dice, dice il padre al figlio,
e poi va in chiesa a farsi confessare.

"Mamma, mamma"- "Dimmi figliolo"
Ccosa devo fare, son prigioniero"
"Oh, figlio, figlio"
"Oh mamma, ma... ma cosa c'è?"
"Ma non le vedi queste catene?"
"Ma non le vedi queste catene?"
"Oh figlio, figlio"
"Oh mamma, ma... ma cosa c'è?"
"Ma non le vedi queste catene?
Ma non le vedi queste catene?"

Ma quanti siamo, donne e bambini,
caricati su questa nave?
E come hanno trovato il passaggio per entrare?
E' stato lo straniero a guidarli!
Tutto per una donna che lui ha voluto,
per una donna che non lo ha voluto,
per quella disgraziata che si è negata...

Oh, mamma, Mammeluch! Arrivano i Turchi!
Arrivano i Turchi, arrivano i Turchi!
Sono venuti a prenderci, oh mamma, ma che colpa ho io?
Oh mamma, ma che colpa ho io?

Oh, mamma, Mammeluch! Arrivano i Turchi!
Arrivano i Turchi, arrivano i Turchi!
Sono venuti a prenderci, oh mamma, e io cosa posso fare?
Oh mamma, e io cosa posso fare?

E io figliolo cosa posso dirti,
ho visto morire, ho visto bruciare
e io figliolo cosa posso fare,
ci hanno portato via tutti i risparmi
ci hanno portato via...

Oh, mamma, Mammeluch! Arrivano i Turchi!...

E poi è nata una bambina....,
e poi è nata Liberata
figlia del fucile che ha sparato,
e ha ucciso... e ha ucciso.

E per chi non conosce questa storia,
e per chi non ha capito il discorso
è come il padre che dice al figlio,
prima di andare a confessarsi:

"Se ti toccano con una mano,
non far lo stupido, o te lo fanno di nuovo!
Se ti toccano anche solo con un dito,
prendi un bastone e dagli il cotto e il crudo!
Il cotto e il crudo, e dagli il cotto e il crudo!"
Un paio di anni dopo, questa amicizia-collaborazione dà alla luce un altro passo spiccatamente mediterraneo. L'amù e a forsa vuole essere una canzone d'amore nel senso più generale del termine ma non manca di una spinta a cambiare la vita anche se "nel bene e con ragione" , nella consapevolezza che il destino dell'umanità dipende da ogni singolo uomo, da cui la seconda parte del titolo. Un grosso lavoro è stato fatto per far collimare la frase musicale portante con delle parti di testo (per esempio. quella finale) in maniera che, non solo le sillabe, ma anche gli accenti tonici delle parole, fossero "misurati".

 

L'amù e a forsa (C.Baghino-M.Brai)

Picchemmu du pé, battemmu insci'u sé,
ommu,
pòrlime, tucchime, e
ch'a cruje du ben a piggie a me man,
vuje
cantime 'na cansùn,
ma ca pòrle d'amù, pe n'otta d'amù,
d'amù.
Pe chi n'ha bezeugnu e u sèrche a vaitè,
p'a donna che t'eu, p'a to
pe l'amigu cu t'è vijìn,
e pe quellu cu l'è luntan
pe n'uje, 'na vuje,
a cuè de stò chi cun ti.

Zeuga cun mi a vive l'amù
e u diau u l'è ligau
e a chi nu ghe credde
allùa fàggau vedde
ch'a vitta a l'è düa ma ti a peu sarvò
e ti l'è da sarvò che ti peu cun l'amù,
l'amù p'a to tèra o pe quellu gattin,
pe quellu tipu štrònu cu te šta lì vijìn.

Ch'a cruje du bèn a piggie a me man,
vuje
cantime 'na cansùn e
ch'a cruje du bèn a guidde a me man,
vuje
cantime 'na cansùn
véa.

A vitta a l'è fèta pe imparò
a cunusce e dištingue u ben dau mò
se ti dè, te vegne, se te vegne a va bèn
se t'accianti velenu t'accheuggi serpenti
e se u su u t'ašcòde a neutte a fa tremò.
L'ommu u l'è cresciüu
e u l'ha imparau a lessiun
àua u vive ma s'u nu šcange u nu se peu sarvò
e allùa

zònu picca du pe e fatte sentì,
dagghe forte,
dìggau ti, crìau ben,
vegiu picca du pé e fatte accapì
ciü bèn,
špieghigau anche ti.

Zonu picca da man e fatte sentì
dagghe forte,
dìggau ti, crìau ben
vegiu picca da man e fatt'accapì
ciü bèn,
spieghigau
anche ti
bèn

 

ch'a rivolusiun a pòrte da ti
tiu sè, ommu,
primma mi e poi ti
perche a rivulusiun ti a fè anche ti,
éia,
int'u bèn, cun rajiùn,
àua.

Se nu ti šte bèn l'è curpa anche to,
tiu sè, ommu,
sèrchime d'accapì e
se nu ti šte bèn l'è curpa anche to
fa quarcosa,
primma mi e poi ti,
àua.

Ch'a vitta du sé ti a šcangi anche ti
tiu sè, ommu,
sèrchime d'accapì
perche a vitta du sé ti a šcangi anche ti
fa quarcosa,
primma mi e poi ti,
àua.

Ch'a cruje du bèn a piggie a me man,
bella vuje
cantime 'na cansùn,
frè
ch'a cruje du bèn a guidde a me man,
bella vuje
cantime 'na cansùn
véa, dauvéa véa!

 

L'amore e la forza

Picchiamo col piede, battiamo sul cielo,
uomo,
parlami, toccami e
che la croce del bene prenda la mia mano,
voce
cantami una canzone,
ma che parli d'amore, per una volta d'amore, d'amore.
Per chi ne ha bisogno e cerca la verità,
per la donna che vuoi, per la tua
per l'amico che ti è vicino,
e per quello che è lontano
per una voce, una voce,
e la voglia di stare qui con te.

Gioca con me a vivere l'amore
e il diavolo è legato
e a chi non ci crede
faglielo vedere
che la vita è dura ma la puoi salvare
e la devi salvare, perché lo puoi, con l'amore,
l'amore per la tua terra o per quel gattino,
per quel tipo strano che ti sta vicino.

Che la croce del bene prenda la mia mano,
voce
cantami una canzone e
che la croce del bene guidi la mia mano,
voce
cantami una canzone
vera.

La vita è fatta per imparare
a conoscere e distinguere il bene dal male
se dai, ti ritorna, se ritorna va bene
se semini veleno raccogli serpenti
e se il sole ti scalda la notte ti fa tremare.
L'uomo è cresciuto
e ha imparato la lezione
adesso vive, ma se non cambia non si può salvare
e allora

giovane picchia col piede e fatti sentire
dagli forte,
diglielo tu, gridalo bene,
vecchio picchia col piede e fatti capire
meglio,
spiegaglielo anche tu.

Giovane picchia con la mano e fatti sentire
dagli forte,
diglielo tu, gridalo bene
vecchio picchia con la mano e fatti capire
meglio,
spiegaglielo
anche tu
bene

che la rivoluzione parte da te
lo sai, uomo,
prima io e poi tu
perché la rivoluzione la fai anche tu,
sì,
nel bene, con ragione,
ora.

Se non stai bene la colpa è anche tua
lo sai, uomo,
cerca di capirmi e
se non stai bene la colpa è anche tua
fa' qualcosa,
prima io e poi tu,
ora.

Che la vita del cielo la cambi anche tu
lo sai, uomo,
cerca di capirmi
perché la vita del cielo la cambi anche tu
fa' qualcosa,
prima io e poi tu,
ora.

Che la croce del bene prenda la mia mano,
bella voce
cantami una canzone,
fratello
che la croce del bene guidi la mia mano,
bella voce
cantami una canzone
vera,
davvero vera!
Dopo la fine dei GIT et les Poulettes, è continuata la mia collaborazione con Marco Rocca, chitarrista e cantante del gruppo, sfociando nella fondazione dei Pangea. Questo progetto si propone di attingere dalle varie etnie del mondo e miscelarle con influenze moderne. Il dialetto tabarkino, avendo subito tutte le influenze di chi ha girato il mondo per mare, si è rivelato veramente adatto a questo scopo, come già sperimentato anche col precedente gruppo. Così è nata A tremmuìssa, vale a dire il verme usato per esca. Su base afro-reggae, è una canzone allegra e goliardica e racconta di un "tipo da spiaggia" che sta tutto il giorno su uno scoglio a pescare senza prendere niente. Non si capisce però se, col vermetto, voglia pescare un'orata o una "mormora tedesca" che sta sdraiata in spiaggia ad abbronzarsi. Questo brano è stato costruito usando parole dal suono particolare e, in certi casi, non molto in uso attualmente, con l'intento di fissarle grazie al testo della canzone.
Ecco alcuni esempi: "šcianasseua", scoglio piatto ed esteso più o meno immerso nel mare; "šciappò", spaccato, crepato; "nu se rašce 'na rešca", detto dialettale usato nelle più svariate situazioni, che sta a significare "non si prende (raschia) nemmeno una squama".

 

A tremuìssa (M.Brai-M. Rocca)

Tüttu u giurnu int'a šcianasseua
cu su cu te šciappe u servellu
tüttu u giurnu int'a šcianasseua
e nu se rašce 'na rešca eh!
Nu se rašce 'na rešca eh!

Ammìu l'ègua de tència
pe sèrcò d'accapì cusse fan
pe sèrcò d'accapì cusse fan lì dabbassu
Ammiu i tucchi de pan ruddiggè
e n'accapisciu perchè preferiscian
n'accapisciu perchè preferiscian - a tremuizza

Tüttu u giurnu int'a šcianasseua
cu su cu te šciappe u servellu
tüttu u giurnu int'a šcianasseua
e nu se rašce 'na rešca eh!
Nu se rašce 'na rešca eh!

Ho d'accattòmme 'na bòrca pe puài anò
int'u mezu du Frìu
cu'i botti sun fissu a mezègua
Ho d'accattòmme 'na bòrca pe puài anò a Bobba

nu ne possu ciü, d'avài i pè bagnè.

A 'na bella tremmuizza reusa,
gh'ià ciucchièn 'na bella murscellò!
A 'na bella tremmuizza reusa,
ti tià cacci drèntu in guèntea.
Au diè! Au diè!

'Na bella tremmuizza reusa ca sciorte,
de'n'ta so cantabrün-a
bèn inlescò int'i lammi da me canna neua,
'na bella tremmuizza reusa, ca l'addènte u fèru,
d'anòmene in ca cu'e oche appreuu,
d'anòmene in ca cu'e oche appreuu!
Tüttu u giurnu int'a šcianasseua ...

 

Il lombrico (L'esca)

Tutto il giorno sulla "šcianasseua"
con il sole che ti spacca il cervello
tutto il giorno sulla "šcianasseua"
e non si becca neanche una squama, eh!
E non si becca neanche una squama, eh!

Guardo l'acqua di sbieco
per cercare di capire cosa fanno
per cercare di capire cosa fanno là sotto.
Guardo i pezzetti di pane rosicchiati
e non capisco perché preferiscono,
e non capisco perché preferiscono - il lombrico.

Tutto il giorno sulla "šcianasseua"
con il sole che ti spacca il cervello
tutto il giorno sulla "šcianasseua"
e non si becca neanche una squama, eh!
E non si becca neanche una squama, eh!

Devo comprarmi una barca per poter andare
in mezzo al Friu
con gli stivali son sempre a mezz'acqua.
Devo comprarmi una barca per poter andare alla Bobba
non ne posso più di avere i piedi bagnati.

A un bel lombrico rosa,
gliela darebbero una bella addentata!
Un bel lombrico rosa.
te lo butti giù volentieri.
Lo credo bene! Lo credo bene!

Un bel lombrico rosa che esce
dal suo tubo
ben innescato negli ami della mia canna nuova,
un bel lombrico rosa che morde l'amo,
da tornarmene a casa con i gabbiani appresso,
da tornarmene a casa con i gabbiani appresso!

Tutto il giorno sulla "šcianasseua"...
A miògia, come il precedente, è nato dal gioco al rimbalzo delle idee tra Rocca (cagliaritano) e il sottoscritto. Parla di un vecchio marittimo ubriacone che, preparandosi il letto di giornali sulla strada di pietra, parla della sua vita, delle donne e delle insidie degli uomini con le loro leggi. Il tutto usando termini e detti marinari

 

A miògia (M.Brai-M.Rocca)


A miògia a l'è avenò, a buttiggia a l'è šcaggiò,
de giurnòli n'ho assè p'avvaccòme,
chi, sulu, inte štu lettu de ciàppue
ch'a l'è l'ünica cosa che se rašce sensa pagò,
fin'a quandu nu végne u prepoštu a scimbullòte.

L'è assè che n'ammìu mancu ciü u sé,
intantu, anche se gh'è a gragneua,
m'arrüjentu mésu buttiggiùn
e gh'è fissu bunassa come l'euiu.

E nu me vegne mancu ciü in cheu
quante votte ho arenau a chiggia insci'u šcheuggiu
inte štu mò, de mašchere e còrtabullò
e de figgette che se ghe spegie e palanche 'n ti euggi.

Ma quande anche l'èrbu u se m'è štuccau
l'è 'n te štu carruggiu che sun štraccuau
ma gh'è ancùn 'na cosa che me fa move u cheu

u l'è štu gattin cu runfe chi acciantau.

A miògia a l'è avenò, a buttiggia a l'è šcaggiò,
de giurnòli n'ho assè p'avvaccòme
int'u lettu de ciàppue.
U fasciamme u s'è avenau, u martellu u se m'è šcaggiau,
de giurnòli n'ho assè p'avvaccòme int'u lettu de ciàppue.

E nu me vegne, nu vegne mancu ciü in cheu
quante votte ho arenau a chiggia insci'u šcheuggiu
inte štu mò, de mašchere e còrtabullò e de figgette che se ghe špege e palanche int'i euggi.

 

Il muro

Il muro è crepato, la bottiglia è scagliata,
di giornali ne ho abbastanza per accasciarmi,
qui, solo, in questo letto di pietre
che è l'unica cosa che si rimedia senza pagare,
fin quando non viene la guardia a scuoterti.

E' molto che non guardo più il cielo,
intanto, anche se c'è la grandine,
mi scolo mezzo bottiglione
e c'è sempre bonaccia come l'olio.

E non mi viene neanche più in mente
quante volte ho arenato la chiglia sullo scoglio
in questo mare di maschere e carta bollata
e di ragazze con il denaro riflesso negli occhi.

Ma quando anche l'albero si è spezzato
è in questo vicolo che sono spiaggiato
ma c'è ancora una cosa che mi fa muovere il cuore
è questo gattino che ronfa sempre qui.

Il muro è crepato, la bottiglia è scagliata,
di giornali ne ho abbastanza per accasciarmi
in questo letto di pietre.
Il fasciame s'è crepato, il martello s'è scheggiato,
di giornali ne ho abbastanza per accasciarmi
in questo letto di pietre.

E non mi viene neanche più in mente
quante volte ho arenato la chiglia sullo scoglio
in questo mare di maschere e carta bollata
e di ragazze con il denaro riflesso negli occhi.

Un altro esempio di trasgressione è rappresentato da Pittaneddu e baccalà, canzone rock dura e critica nei confronti della vita e cultura tabarkina attuale. Scritta da Cesare "Vasco" Baghino e Tonio Piddiu, sottolinea il disagio giovanile sull'isola dalla quale non si può scappare, dove le opportunità di scambio sono pochissime, specialmente nell'inverno così difficile da superare. Il lungomare e la piazza rappresentano, come del resto nella maggior parte dei paesi, la scena dalla quale passerà ogni carlofortino che non resti in casa. Qui si svolge il rituale della passeggiata ogni sera dell'anno e tarda mattinata dei festivi, mentre nelle mattinate feriali il luogo raccoglie, oltre ai passanti, pensionati, disoccupati e sfaccendati. Il protagonista della storia è un giovane dalla faccia stanca che, seduto su uno scalino sul lungomare, dopo aver visto sfilare le "solite facce" in fila per due, in una piovosa giornata invernale, rimasto con gli ultimi quattro gatti, si sofferma a pensare al suo stato. Il tutto avviene ai piedi della statua di Carlo Emanuele III che dimora al centro del porto e, come tutti i tabarkini, ha un soprannome: Pittaneddu. Il giovane si lamenta di non avere spazi adatti alla sua giovane età, e di sentirsi prigioniero come lo furono i vecchi venuti da Tabarka. Ad un tratto, colto di soprassalto, sente Pittaneddu che reclama di non poterne più di sentire i pettegolezzi (crušte: croste) di tutti quelli che passeggiano di sotto, e di volersene andare!

 

Pittaneddu e baccalà (C. Baghino-T. Piddiu)

E bòrche šcüggian insci'u mò; se vedde l'uìza,
de tempu n'è passau da quande semmu partìi.
U mainò: "Preparemmuse a šbarcò".
Se pòrle sulu de düjentusinquant'anni fa.

Pria insce pria i seugni piggian furma
U Paize u l'è nasciüu
ma u ventu u sciüscie lèntu e u tempu,
u tempu u se ne va.

Ma che facce štanche àivan i neui arrivè
che vegnìvan dall'Africa und'éan prejuné
dujèntusinquant'anni fa.

Àua tütte e cose sun šcangè
mi sun chi indecisu se partì o nu,
certu che de cose belle chi ghe n'è
ma ün cu l'ha vint'anni chi cuss'u ghe štà a fò?

Ai veddu cumm'e pégue
insci'a ciassa a camminò,
l'ürtimu traghettu u l'ha ancùn d'arrivò.
Št'ègua a m'ammasse,
sun ancùn e dej'ùe e a ciassa a l'è veua:
tütti in ca a durmì!

L'invernu u tagge e gambe,
l'invernu u l'è arrivau
quattru gatti p'au mundu in sèrca de cumpagnia.
Se vedde che nu han seunnu!
Amiji? Pochi amiji.
Ma chì cuss'ha da fò?

Ma che facce štanche han i zoni d'ancheu,
nu san ninte dell'Africa ma sun turna prejunè

cumme düjèntusinquant'anni fa!

Pittaneddu u l'è bagnau dell'ègua che vegne zù.
Pittaneddu u l'è arraggiau,
dije ch'u nu gh'ià fa ciü.
Štaneutte au veddu pruppriu mò,
dije cu se n'eu anò.
Pittaneddu u vegne zü: "Nooo! Nu štall'a fò!"

Pittaneddu:
"Àua quešta štoria a m'ha aštancau
mi che sentu tüttu quellu che se dijan
sentu che pòrlan de pulitica
sentu che pòrlan de droga
sentu che pòrlan de corne
sentu che pòrlan de športu, e...
crušte, crušte d'a mattin a sàia
crušte, crušte, nu ne possu ciü
crušte, crušte, m'alevan tütta l'òia
crušte, crušte, nu gh'ià faggu ciü!"

Puscibbile che me sun immaginau tüttu?
Pittaneddu u l'è fissu lì,u nu se move miga,
pero pò ch'u rìe.
Mah! Deuv'esse l'effèttu de quellu baccalà
ch'ho mangiau a mezugiurnu,
m'au sentu tüttu insci'u šteummagu. Mah, tantu nu gh'è nisciün.

 

Carletto e baccalà

Le barche scivolano sul mare; si vede l'isola,
di tempo n'è passato da quando siamo partiti.
Il marinaio: "Prepariamoci a sbarcare".
Si parla solo di 250 anni fa.

Pietra su pietra i sogni prendono forma
Carloforte è nato
ma il vento soffia lento e il tempo,
il tempo se ne va.

Ma che facce stanche avevano i nuovi arrivati
che venivano dall'Africa dov'erano prigionieri
250 anni fa.

Adesso tutto è cambiato
sono indeciso se partire o no,
certo che di cose belle qui ce ne sono
ma uno che ha vent'anni cosa ci sta a fare?

Li vedo come pecore
in piazza a camminare,
l'ultimo traghetto deve ancora arrivare.
Quest'acqua mi ammazza,
sono ancora le dieci e la piazza è vuota:
tutti a casa a dormire!

L'inverno taglia le gambe,
l'inverno è arrivato
quattro gatti per il mondo in cerca di compagnia.
Si vede che hanno sonno!
Amici? Pochi amici.
Ma qui cosa stanno a fare?

Ma che facce stanche hanno i giovani d'oggi,
non sanno niente dell'Africa ma sono di nuovo prigionieri
come 250 anni fa!

Carletto è bagnato dell'acqua che vien giù.
Carletto è arrabbiato,
dice che non ce la fa più.
Stanotte lo vedo giù di morale,
dice che se ne vuole andare.
Carletto scende giù: "Nooo! Non farlo!"

Carletto:
"Ora questa storia m'ha stancato
proprio io che sento tutto quello che dicono
sento che parlano di politica
sento che parlano di droga
sento che parlano di "corna"
sento che parlano di sport, e...
pettegolezzi, pettegolezzi da mattina a sera
pettegolezzi, pettegolezzi, non ne posso più
pettegolezzi, pettegolezzi, mi tolgono l'aria
pettegolezzi, pettegolezzi, non ce la faccio più!"

Possibile che mi sono immaginato tutto?
Carletto è sempre lì, non si muove mica,
pero sembra che rida!
Mah! Dev'essere l'effetto di quel baccalà
che ho mangiato a pranzo,
me lo sento ancora tutto sullo stomaco.
Poco male, tanto non c'è nessuno.
Dème a me roba, rendetemi le mie cose, è una frase che si dice quando, dissociandosi da una situazione, si vuole "mollare tutto". Il testo di questa canzone di imminentissima uscita è di Salvatore "Sasha" Caputo, grandissimo amico e compagno di casciandre, nel corso delle quali sono nate alcune tra le migliori canzoni dall'epoca della nascita della JOB in poi. Sacha è un omone dall'animo gentile, capo indiscusso dei "Troglos", tribù alla quale ci vantavamo di appartenere, nonché grande pescatore, cuoco, arrostitore ed esilarante intrattenitore-cantastorie. La storia di questa canzone trova un personaggio psicologicamente a terra, arrabbiato col suo amore e con tutto il resto, desideroso di liberarsi e di volare sulla baia sopra il mare. Il testo, scritto per immagini, risulta un po' ermetico e trova il giusto spazio in un blues in sei battute, per la sua caratteristica di lamentela e recriminazione tipica del genere.

 

Dème a me roba! (S.Caputo- M.Brai)

Dème a me roba! Dème a me roba!

Štrasse vegie e štreppellè
sensa mancu ciü i pumelli
che pe méttai int'a valìja
fantasia nu me ne gh'eu.

Dème a me roba! Dème a me roba!

Che sun štancu de virò
sensa mancu 'na barracca
cumme u buccu ch'ho 'n ta štacca
vegia, rutta e šcalcinò.

Dème a me roba! Dème a me roba!

Che sciü in ètu ho da jüò
vijìn au su ch'u pò ciü bellu
quande de 'nsci 'a ciazza frešca
a so morte ho d'ammiò.

Dème a me roba! Dème a me roba!

Ghe l'ho ditu au me amù
cu me puàiva tüttu 'n šchersu
šguòrdi languidi e caresse
da fò sulu a carlevò.

Dème a me roba! Dème a me roba!

Anche se mi sun da sulu
quande e nüvie han d'arrivò
sensa grilli int'u servellu
e e me òie suvia u mò.

Dème a me roba! Dème a me roba!

Fratti, suore e cardinòli
pe tegnìne armenu a galla
cu'e filòrse a ligò sòli
e nu pensò ch'a l'è 'na balla.
Dème a me roba! Dème a me roba!

 

Rendetemi le mie cose! (che me ne vado...)

Rendetemi le mie cose! Rendetemi le mie cose!

Stracci vecchi e strappati
senza neanche più i bottoni
che per metterli in valigia
fantasia non ce ne vuole.

Rendetemi le mie cose! Rendetemi le mie cose!

Che son stanco di girare
senza neanche una casa in campagna
con il buco che ho nella tasca
vecchia rotta e scalcinata.

Rendetemi le mie cose! Rendetemi le mie cose!

Che su in alto devo volare
vicino al sole che pare più bello
quando dalla spiaggia fresca
la sua morte devo guardare.

Rendetemi le mie cose! Rendetemi le mie cose!
Glie l'ho detto al mio amore
che mi sembrava tutto uno scherzo
sguardi languidi e carezze da far solo a carnevaleCarnevale.

Rendetemi le mie cose! Rendetemi le mie cose!

Anche se io son da solo
quando le nuvole devono arrivare
senza grilli nel cervello
e le mie ali sopra il mare.

Rendetemi le mie cose! Rendetemi le mie cose!

Frati, suore e cardinali
per tenerci, almeno, a galla
con cordini legano galleggianti
per non pensare che sono bugie.

Rendetemi le mie cose! Rendetemi le mie cose!
Avanzando verso la conclusione, citiamo altri due prodotti del nostro gruppo di amici: Lascime perde ("Lasciami perdere") di Battista Ferraro e Quande sciüsce u gregòle ("Qaundo soffia il grecale") di Frank Coppola. Pezzi apprezzabili ma abbandonati dagli stessi autori. Ripeschiamo però dal dimenticatoio un brano scanzonato e allegro di Frank: Ma l'impurtante che gh'è a salute. Presentato goliardicamente solo in occasione della corrida tabarkina ed accolta a "suoni di corno" e campanacci soprattutto per motivi tecnici non è stata accettata al festival perché già edita! La filosofia del pezzo rispecchia in parte quella dei Troglos, gioviale e un po' strafottente, la base musicale è caraibica.

 

Ma l'impurtante che gh'è a salute!
(A. Coppola)

U vegniva mattu pe certi cantanti
l'éa di anni cu pregòva tütti i santi
ghe piajàiva fò de cose 'nteressanti
gh'àivan fètu de dumande 'n po' piccanti:
se l'éa mégiu fòse 'na cultüa
se l'éa mégiu fòse 'na famiggia
se fise mégiu 'n po' de dignitè
oppüre pensò sulu ai dinè.

Ma l'impurtante che ghè a salute
ai dinè ghe pensiemu duman
mégiu esse poviai cu'u belìn cu se ìse
ch'esse passi e cuntò fissu dinè.
Ma l'impurtante che ghè a salute
a l'è fissu a cosa ciü impurtante.

U cuntòva fissu e u gh'ha rimissu 'n euggiu,
u l'ha špaizu figna a l'ürtimu pigheuggiu,
allùa u s'è rimissu a sünò u mandulin
cu' i so amiji e a damijan-a du vin.

E mi gh'àiva ditu pensa a salute
i dinè nu sun fèti pe tì!
Éan tütte pàule dìte au ventu:
Ma nu ti u veddi che àua t'é ciü cuntentu?
Ma l'impurtante che ghè a salute a l'è fissu a cosa ciü 'mpurtante.

 

Ma l'importante che ci sia la salute!

Impazziva per certi cantanti
da anni pregava "tutti i santi"
gli piaceva fare cose interessanti
gli avevano fatto delle domande un po' piccanti:
se fosse meglio farsi una cultura
se fosse meglio farsi una famiglia
se fosse meglio un po' di dignità
oppure pensare solo ai soldi.

Ma l'importante che c'è la salute,
ai soldi ci penseremo domani
meglio essere poveri con il "belin" che si alza
che essere mosci e contare sempre soldi.
Ma l'importante che ci sia la salute
è sempre la cosa più importante.

Contava sempre e ci ha rimesso un occhio,
ha speso fino all'ultimo "pidocchio",
allora si è messo a suonare il mandolino
con gli amici e la damigiana di vino.

E io gli avevo detto pensa alla salute
i soldi non sono fatti per te!
Erano tutte parole dette al vento.
Ma non lo vedi che ora sei più contento?
Ma l'importante è che ci sia la salute
è sempre la cosa più importante.

Dopo aver stretto l'obbiettivo su un fazzoletto di terra di 50 Km quadrati, chiudiamo lanciando un meassaggio di apertura da questo puntino sulla carta geografica. Fin dall'antichità San Pietro è sempre stata una terra di nessuno frequentata da flottiglie di ogni provenienza. Infatti, data la sua posizione geografica, il canale di S.Pietro è un rifugio sicuro per chi, sorpreso da una tempesta generata sicuramente dal Maestrale inclemente tiranno della costa occidentale di Sardegna e Corsica, sia costretto a correre ai ripari, specialmente quando le navi non erano delle città galleggianti! Ancora oggi sull'isola c'è l'ultimo faro della costa orientale di questa parte del Mediterraneo fino a Gibilterra, trafficatissimo crocevia marittimo. La costa piu vicina, a partedopo quella sarda, è quella del nord Africa, distante meno di 135 miglia (circa 250 Km). Io stesso, colto da un dubbio, ho verificato con un semplice compasso che Carloforte è il punto della Sardegna più distante dalla penisola. Inoltre nella zona dell'isola degradante verso sud ovest e in particolare allo Spalmatore, località dove si trova la "vigna" della mia famiglia, si ricevono malissimo i mass media nazionali mentre arriva forte il segnale delle radio spagnole e di radio Tunisi. In questo contesto, da adolescente stavo mesi e mesi con il sintonizzatore posizionato sull'emittente tunisina per senplice curiosità e ricordo di aver avvertito in seguito la durezza nelle parole incomprensibili di quella gente nel periodo della guerra nel del golfoGolfo; non dimenticherò mai lo stupore provato nell'udire una filastrocca che cantavamo da bambini (iaccube be be, iaccube be be be be). Sono evidenti quindi gli scambi avvenuti tra la gente di questo mare aldilà delle barriere politiche, religiose ed economiche che le generazioni a venire hanno il compito di abbattere senza però sacrificare nessuna delle caratteristiche di ogni singola comunità. Questi sono i temi trattati nella canzone seguente dove si pensano le isole mediterranee come briciole che nella deriva dei continenti sono cadute in questo nostro "caldo e forte, prepotente e ricco, generoso e calmo, spietato e limpido mare". Questa canzone è eseguita nello spettacolo Marenostrum di musica rockblues e multietnica in salsa mediterranea in Sardegna e in continente.

Briciole di terra (M.Brai)

Mare mare, ma ma ma mare mare mare,
uh ma ma ma mare mare mare
ma ma ma mare mare mare uh
ma ma ma mare amare il mare.......

Cosa posso se
io son nato in una briciola d'Africa
staccata dallo stesso pane con altre,
e caduta proprio lì, in mezzo al mare,
con diversi e strani mondi attorno
che continuavano a spiaggiare
ad ogni colpo di mare,
ad ogni colpo di mare.
E sempre il...

Mare mare ...

E cosa ci posso fare se
io son nato in una briciola d'Africa
e la mia radio prende Radio Tunisi
quasi meglio del canale nazionale.
Cosi son curioso d'ascoltare
cosa sentono dall'altra parte,
cosa pulsa in quella parte,
quel che vive dall'altra parte del mare.
Sempre dal...

Mare mare...

E cosa posso se
io son nato in una briciola d'Africa
e la mia testa canta in negro antico
e il mio cuore batte in africano:
yeh eeh yeh wowo - yeh eeh yeh wowo.
Ed ho il sale nelle ossa
perchè son nato come un granchio,
aggrappato a quegli scogli
della logora banchina appena sopra il mare,
a quattro palmi sul mare,
un metro sopra il...

Mare mare...

E vien voglia di cantare
di questo caldo e forte,
prepotente e ricco,
generoso e calmo,
spietato e limpido mare.

 

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