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Talianu

AMOR DI CORSICA

Capitolo quarto - Delle PAROLE e della MUSICA

Stefano Tomassini

CAPITOLO QUARTO

in cui compare Dominique e compaiono le nostre discussioni su Lingua e dialetto,

discussioni che sarebbero quasi del tutto inutili se alla fine le canzoni e soprattutto la musica non ci aiutassero a capire qualcosa

         Telefono a Dominique. "Dis-moi des dictons corses. Dimmi qualche proverbio corso." Gliene viene in mente solo uno, che fa riferimento alle dimensioni direttamente proporzionali deI naso e d'un'altra parte deI corpo. Dietro la voce del mio amico sento la voce della madre: ne nasce il divieto tassativo di citare il proverbio. Cerco alternative in un libro e scopro che chi ne sumena ventu ne racoglie a timpesta e in bocca chjosa ùn c'entre mosca, oppure che i so panni brutti si lavanu in famiglia e chì disprezza vole cumprà.
         Quando glielo chiedi, Dominique non collabora. Sarà successo cento volte almeno: lui mi citava un detto corso, me lo diceva svelto, in ajaccino stretto. Premetteva o aggiungeva: "Noi in Corsica diciamo così". Io lo invitavo a ripetere doucement. Capivo finalmente qualcosa come A volpe perde u pelu ma micca u viziu, e chiudevo il gioco con un sonoro: "Ma va'? Dite davvero così voi altri corsi?". Era ed è come un allenamento, un palleggio. Ci teniamo in esercizio in questo speciale sport che è la questione linguistica.
             Beninteso, non siamo esperti, né l'uno, né l'altro. Però abbiamo tutti e due orecchie e memoria. Io mi sono fatto la mia idea e lui ha la sua: inutile dire che non combaciano e che seppure in qualche momento si trovassero per casa a combaciare, allora Dominique in un attimo cambierebbe la sua. Il problema di Dominique è di politica, di storia e di sentimento: ci tiene a essere francese, e non sarà il parlare corso, lingua o dialetto che sia, a farlo desistere dal suo obiettivo. Il problema mio è cercare di capire che cosa sia una lingua e che cosa sia una nazione. Mi chiedo per esempio: possono le lingue e le nazioni avere una vita loro come le persone? Mi risponde naturalmente di sì, ma la risposta, tanto semplice quando si limita a constatare, ad esempio, che in Toscana e dintorni un tempo si parlò etrusco e chi lo parlava erano gli etruschi, si fà più difficile se deve considerare la possibilità che una lingua stia ancora adesso, nascendo e se deve ammettere che questa gestazione è lunga, difficile e che la nascita è possibile ma non ancora sicura.
             A me pare che questa sia la condizione attuale di quella che i còrsi, o buona parte di loro, chiamano lingua còrsa e che noi italiani siamo naturalmente portati ancora oggi a definire come un dialetto oppure, meglio, una serie di dialetti di derivazione italiana. Fosse la Corsica rimasta legata all'Italia, il suo parlare sarebbe rimasto e rimarrebbe in sempiterno dialetto. È diventata francese e i suoi dialetti da un paio di secoli vivono un'avventura affascinante e formidabile: rischiano l'estinzione, perché non hanno più chiaro il riferimento, il cordone, che pure era cosi corto, stretto, con il toscano, ma d'altra parte trovano forza e ragione d'affermarsi proprio nella loro diversità rispetto al francese. Se l'isola fosse diventata francese più tardi, sarebbe stato molto diverso: se fosse francese solo dal Novecento, Napoleone avrebbe certo avuta minore forruna e anche minori disgrazie, e con tutta probabilità i corsi oggi avrebbero comportamenti assimilabili a quelli di una minoranza nazionale, avrebbero chiesto da tempo e forse anche ottenuto il bilinguismo a scuola, nei tribunali, in tutti gli uffici pubblici e nei carrelli stradali, avrebbero un partita di raccolta della minoranza nazionale e posti di lavoro proporzionalmente distribuiti fra comunità francofona e comunità italofona. Ho detto italofona, si, perché i còrsi parlerebbero certamente italiano.
             Non nego che ci sia un po' di sentimento anche in quello che dico io. Non sono più scientifico di Dominique. Credo semplicemente che nel profondo dell'identità corsa ci sia una radice italiana, oggi semisconosciuta. Non ne ricavo programmi irredentistici. Arno la Corsica, ma non la vaglio.

             Conosco il parlare dei còrsi ed è affascinante quasi come la natura dell'isola. A sentirli parlare si ha l'impressione che ci passa essere un rapporta diretto fra i suoni e l'aria in cui si diffondono. Hanno lo stesso carattere di cristallo infinitamente trasparente. La voglio dire tutta: il linguaggio dei còrsi ha un colore, che secondo me è verde-azzurro. Sarà forse perché le consonanti tendono tutte a farsi,dolci e a volte dolcissime, come nel siciliano. E tuttavia non perdono mai né forza né consistenza: accompagnano le parole come fossero il loro liquido vitale. Le vocali, spesso più ampie di quanto te le aspetti, regolano il flusso, sono come piccole dighe, larghi ciottoli, che rallentano il fiume delle parole. Il risultato è solenne, senza retorica, e familiare, quasi intima, senza neppure un briciolo di volgarità.
              A volte chi non c'è stato mi chiede: a che casa somiglia il modo di parlare dei corsi? Spesso rispondo con decisione: è un altro dialetto italiano, diverso da tutti gli altri, e con in più la differenza di avere un vocabolario armai zeppo di parole di derivazione francese. Faccio l'esempio classico del merru, il sindaco, preso direttamente dal maire che non poteva avere concorrenti, vista che prima che la Francia arrivasse in Corsica non vi si conosceva neppure l'idea del sindaco. Altre volte invece rispondo: immagina l'umbro o il sabino parlato da un siciliano e ci arrivi piuttosto vicino.
               Questa, che mi porta anche dalle mie parti, è la traccia che più mi appassiona. Di non essere scientifico non ho bisogno di ripeterlo. In questo casa pero non cerco neanche di essere obiettivo e mi lascio portare dal gusto delle somiglianze, dei ritrovamenti. Mi pare che il còrso scritto passa essere letto in sabino a umbro del Sud, che è poi più a mena la stessa casa. Parlati, sono diversissimi. l dialetti umbro-sabini non hanno nulla della liquidità che dicevo,
nulla della dolcezza. Sono asciutti, un po' aspri e forse risultano perfino sgradevoli a chi non abbia per loro sufficiente affetto. E tuttavia la struttura è la stessa, le desinenze strette sono simili, il senso del discorso mi pare intelligibile, con reciprocità, da una parte e dall'altra.
               Serve a qualcosa questo raffronto fra il còrso e questi dialetti dell'Italia centrale? Certamente serve a lasciarmi sognare di un'identità comune, non solo o non tanto fra le due sponde del Tirreno, ma forse soprattutto fra regioni, come dire, non affrettate dallo sviluppo. Come fosse questo il parlare più antico della gente mediterranea.

Sento l'ultimo disco dei Muvrini. Cantano assieme a Sting:

You'll remember me
\Vhen the west wind moves
Upon the fields of harley
Di u sole fieru
Ti ne scurderai
Camminendu in terre d’oru.

               Bravi Muvrini, bravo Sting. Improvvisamente la questione della lingua mi si rivela ridicola. Portati dal vento dell'ovest e accompagnati dalla musica e da una ballata, inglese e còrso sembrano la stessa lingua. Con li Muvrini le canzoni còrse hanno cominciato a fare il giro del mondo come tutte le canzoni intelligenti, a ogni giro hanno riportato a casa qualcosa. Li ho sentiti cantare in catalano e tradurre in parole loro e musica nuova antiche tammurriate Napoletane, quando e come vogliono le armonie sanno d'Arabia oppure d’Irlanda. Non so se sia pop o folk, so che cantano bene e suonano ancora meglio.
             Terre d’oru, la canzone con Sting, sarebbe la migliore se non fosse seguita dal classico dei classici, il Diu vi salvi Regina, che è l’inno nazionale dei còrsi e che di solito chiude i concerti e spesso anche i dischi dei Muvrini e di molti altri complessi e cantanti dell’isola. I Muvrini dicono Diu, ma l'originale dice o diceva Dio: ecco che mi lascio riprendere dalla questione della lingua. Come se guadagnassi qualcosa a riallargare le vocali.

Diu vi salvi Regina
E Madre tmiversale
Per cui favor si sale
Al Paradisu.

Voi siete gioia e risu
Di tutti i scunsulati
Di tutti i tribulati
Unica speme.

Gradite ed ascultate
O Vergine Maria
Dolce clemente e pia
Gli affetti nostri.

          Ero in ballata con Sting. Volavo col vento dell'ovest. Pensavo che Corsica e Mediterraneo, Europa e Oceano e forse perfino America fossero improvvisamente un mondo unico. Poi attacca un violino, o forse una viola, e mi suggerisce la musica che conosco: lenta, grande e solenne. Quando dicono "per cui favor si sale", loro stanno già salendo e io salgo appresso a loro. Salgo indietro nel tempo e nel mondo. Dio, Diu: conta poco la desinenza. E tutto e solo corso quello che dicono, anche se un attimo fa giocavano ancora con Sting e i suoi campi d'orzo.
         Ricordo una discussione d'un paio d'anni fa con l'editore Guy Firroloni e con il mio amico Dominique, che di mestiere fa lo storico e di cognome fa Orsoni. Qualche volta lo chiamo Orsonix, in omaggio ai suoi sentimenti francesi: Orsonix il gallico. "Una lingua può nascere e affermarsi," dicevo a Firroloni, sorvegliando lo sguardo di Dominique, "a condizione però che la comunità dalla quale deve nascere abbia i mezzi, necessariamente molto potenti, per farlo. Io conosco solo due casi che somigliano al vostro: l'ebraico in Israele e il gaeico in Irlanda. Il primo è riuscito, il secondo no, proprio perché in Israele i mezzi e le motivazioni sono stati molto più forti che in Irlanda. Vi pare che in Corsica ci siano motivi e mezzi anche lontanamente paragonabili a quelli israeliani?"
        Firroloni ha scosso leggermente la testa. Orsoni non s'è mosso: a lui, in fondo, di tutta questa storia della lingua corsa interessa davvero poco. Visto che il mio discorso sembrava ragionevole al mio piccolo uditorio, ho continuato: "Se poi il problema è quello di difendere l'identità del popolo corso, allora non sarebbe forse il caso di ricorrere all'italiano?". Dominique s'è mosso, ha sgranato gli occhi, aperto le orecchie e fatto un piccolo salto sulla sedia. Firroloni mi ha stentatamente sorriso, come per farmi capire che quello che dicevo non lo considerava del tutto a sproposito, e mi ha dato un numero di A Messaggera, il trimestrale di cui è direttore oltre che editore, che portava in copertina questo titolo: La tentation de l'Italie. C’erano le interviste parallele con due intellettuali corsi, Pascal Marchetti e Dominique-Antoine Geronimi. Marchetti è sostenitore dell'uso dell'italiano, "denominatore comune" dei dialetti còrsi: "Il vero bilinguismo, in Corsica, non può che essere la padronanza paritaria del francese e dell'italiano e non una mitica equivalenza istituzionale della lingua francese e delle differenti inflessioni rurali proprie di ciascuno dei nostri villaggi, per simpatiche e attraenti che siano" . Geronimi è sul fronte opposto: spiega in sostanza che l'uso dell'italiano condannerebbe il corso al ruolo di "sermo quotidianus, sermo humilis". "Io credo," dice, "che la sola lotta che valga consista nel fissarsi l'obiettivo di dare alla lingua dei còrsi gli strumenti e la statura di una lingua vera ed essa non sarà vera se non sa restare se stessa ed essere di oggi."
         Ho naturalmente più simpatia per le tesi di Pascal Marchetti, ma credo che entrambi abbiano ragione, anche se si tratta di ragioni contrapposte. Si fronteggiano, mi pare, due atteggiamenti, due abiti diversi: Marchetti porta l'abito razionale, Geronimi quello volontario. Posso sì essere tentato di sostenere che la volontà rischia di essere velleitaria, se non si dispone dei mezzi e delle motivazioni che diceva. Ma non è forse vero che altrettanta veleitario può revelarsi un ragionamento tutto costruito sui legami, pure incontestabili fra l’taliano e il còrsol corso, se quel ragionamento non suscita alcun vero interesse nella comunità cui è destinato? Quanti sarebbero i còrsi oggi disposti a far insegnare l'italiano ai
propri figli dal primo anno di scuola?
           “No, Dominique, ne reponds pas. La mia non è neppure una domanda.
           '''Forse,'' mi ha detto Firroloni, "la forza di una lingua si può e si deve misurare anche dal desiderio che la circonda." E così, mi è chiara che Firroloni è più vicino a Geronimi che a Marchetti. Quanta al desiderio, non avevo dubbi già prima: i còrsi desiderano la lingua corsa molto più di quanto possano avere voglia di parlare l'italiana.
Resta il fatto che hanno tutti ragione, e quindi hanno anche tutti una parte di torto. Mi chiedo quali siano le evaluzioni passibili nei prossimi anni e decenni. Teoricamente se ne possono considerare tre: una istituzionalizzaziane del corso come lingua ufficiale dell'isola, un ritorno dell'italiano, una progressiva perdita del còrso. Ciò che mi inquieta di più è che non riesco a vedere molto concreta nessuna delle tre prospettive. E non posso nemmeno credermi tanto giovane da poter assistere alla conclusione di questa vicenda.

          I figli mi sfottono. Vedono l'astuccio d'un altro cd. "Canzone zitelline" legge Jacopo: si aIlarga ridanciano su canzone e poi sillaba e zufola zitelline come fosse un trenino. Giulia agita le braccia al cielo come per un gol della Roma. Mi fanno il tifo contro.
          Io capisco che possano restare indifferenti aill’avviso che "un ci darà più latti a capra di Lucia", ma vorrei che avessero più pazienza, per me e per queste filastrocche.

                            Eiu vogliu un castellu
                            Torre ci ne serà trè
                            Imbideraghju l'amichi
                            E ne saraghju lu rè.

Prima o poi s'accorgeranno che è roba anche nostra, che certe musiche e certi pensieri hanno fatto avanti e indietro fra le rive dei nostro piccolo mare. Corso, italiano, francese: alla fine che importanza ha? Una volta, senza farci caso, avranno già imparata il motivo e poi forse si troveranno a ripeterlo, a fischiettarlo, con le labbra a anche solo tra sé, capiranno piano piano il senso di quello che hanno più volte sentito e che, se guardano bene, conoscevano già prima d'ascoltarlo. Figli cari, intellettuali del terzo millennio, ignari di Vispe Terese e di Bei Castelli Marcondirondirondelli, ecco le canzoni che non vi abbiamo saputo cantare quando eravate bambini del Novecento.