MINIBABILONIA, da Lino ANGIULI

     Cinque haiku composti in dialetto da Lino Angiuli e tradotti in italiano dall’autore, in spagnolo da Emilio Coco, in gallego da Xulio López Valcárel, in corso da Francescu-Micheli Durazzo, in portoghese da Everardo Norões, in euskera da Felipe Juaristi.

Un strano esperimento – questo – che, per le ragioni esposte in premessa dall’autore, muove dal suo dialetto per incontrare altre lingue (sia “maggiori” che “minori”) alla ricerca di emblematici apparentamenti, che contribuiscano a connotare virtuosamente la metafora di Babele. Il dialetto è quello parlato in Valenzano (Bari); l’ordine delle lingue è quello sopra indicato. L’esperimento non finisce qui, essendo attualmente in corso d’opera: questi sono soltanto i primi esiti. Un ringraziamento particolare va a Emilio Coco per le mediazioni diplomatiche.

Premessa

     Se non ricordo male, fu Pietro Jahier ad affermare che avrebbe voluto conoscere tutti i dialetti italiani per poter conoscere veramente l’Italia: una dichiarazione molto aperta e generosa che – a ben vedere – contiene in sé il germe di una faustiana fantasia di onniscienza/onnipotenza, una fantasia che trascura idealmente il rischio babelico connesso alla smisurata varietà delle lingue umane. Per altro verso (visto che la realtà è sempre, come minimo, doubleface), questa affermazione rende al meglio la consapevolezza dell’estrema parzialità di ogni strumento linguistico e la forte tensione a superarne il limite per mirare a una pienezza conoscitiva che consenta di potersi avvicinare all’altro da sé, non per fagocitarlo ma per relazionare con lui.
In sintonia con questo ultimo assunto, e al fine di testimoniare che la cosiddetta globalizzazione può procedere non solo attraverso i canali del mercato, questo “esperimento” plurilingue è nato dal bisogno di simbolizzare l’arte dello scambio, della reciprocità, della concertazione e della riduzione dei confini, praticate proprio all’insegna della pluralità linguistica e della multiversità culturale.
È mia convinzione che, per lo più, non siamo noi a possedere una lingua ma è lei a possederci (se proprio vogliamo adottare questo verbo poco adatto alla bisogna), soprattutto se parliamo della lingua che abbiamo appreso con il latte e attraverso le viscere: il resto è stato appreso con il cervello. Per questa ragione ho scelto di dare la precedenza al dialetto, la lingua primaria che si incarnò in me e che, sospinta ad uscire dal recinto viscerale e materno da un principio di realtà che parlava italiano, ha incontrato il codice culturale rappresentato dalla lingua nazionale, spingendosi poi verso lidi ulteriori.
In altra occasione, per dimostrare le pari opportunità e dignità degli strumenti linguistici, ho scelto di trasferire nel mio dialetto testi poetici di autori stranieri (cfr Daddò daddà, Marsilio, Venezia 2002). Questa volta – al contrario – è il mio dialetto che viene trasportato verso altre lingue di area mediterranea, grazie al dono ricevuto da alcuni preziosi amici, i quali intrattengono una relazione non occasionale né scolastica con lingue diverse: amici che ringrazio infinitamente per aver accettato di partecipare a un “gioco” simbolico, non solo letterario.


    A questo punto, devo ricordare al lettore che “cinque sette cinque” è l’inflessibile misura prosodica che presiede al genere degli haiku (voce contratta dell’antico hai-kai), frutto di un’antica poetica giapponese ancora oggi praticata ben oltre i confini nipponici. Altra regola irrinunciabile per la composizione di un haiku ‒ com’è noto ‒ è la presenza di un elemento naturale, dalla cui osservazione possa scaturire una saggia riflessione. La disciplina mentale al servizio della meditazione, quindi: niente di più lontano rispetto alla cultura illetterata e alla parlata icastica insite nel mio dialetto, che usa guardare alla natura come alla dura legge di vita e di morte annunciata dalle sue violente consonanti.
Va pure considerato che la radice della parola haiku vuol dire, all’incirca, “gioco in versi”, mentre la sua pratica discende da una forma giocosa di poesia spontanea in cui un poeta avviava la composizione con un verso declamato “a caldo” e altri continuavano con un verso a testa..
La lontananza che ambisce a farsi vicinanza grazie al confronto e grazie alla relazione creativa offerta da relazioni amicali, la condivisione progettuale conquistato grazie all’esercizio di regole comuni: è proprio questo – allora – il senso di un esperimento che offriamo al lettore invitandolo a… stare al gioco, partecipandovi attivamente, se vuole e come vuole, scomodando così la diffusa e mitica concezione dell’individualità creativa, che è bene ridimensionare con l’esercizio dell’avverbio “insieme”, in modo tale che il verbo creare non disdegni di essere coniugato al plurale fino a farsi atto condiviso.

1

‘Nghiane do mare
cusse remore azzurre e
scarrasse l’alme.

Sale dal mare
questo rumore azzurro e
schiude l’anima.

Sube del mar
este ruido azul
y abre el alma

Sube do mar
este ruído azul
e abre a alma.


Codda da u mari
stu rimori turchinu
ed apri l’anima.

Do fundo do mar
súbito sussurro azul
me penetra a alma.

Itsas soinu hau
Urdin eta labain,
Gogoa ireki.
 

A.Di Meglio, L.Angiuli, P.Ottavi (Corti) 

2

E masce arrive.
Nu nome de cerase
sone cambane.

E maggio arriva.

Un nome di ciliege
suona campane.

Y llega mayo.
Un nombre de cerezas
toca campanas.

E chega maio.
Un nome de cereixas
toca as campás.


È ghjunghji maghju.
Un nomu di chjarasgi
sona à ciccona.

Eis o mês de maio.
O seu nome de cerejas
toca campainhas


Maiatza dator,
Gerezi gorri izen bat
Kanpai joka da.

 

3

Chiami’ cè vvole
fasce la renenedde
pure ce iè ssole.

Guarda che volo
compie la rondinella
anche se è sola.

Mira qué vuelo
alza la golondrina
aunque esté sola

Mira que voo
ergue a anduriña
aunque estea soa.


Feghja chì volu
stendi issa rundinedda
ancu sì hè sola.

Olha bem que vôo
alto segue a andorinha
mesmo se sozinha.


Hegaldi edera
Urretxindorrarena.
Bakarrik dago.

E.Coco, G.Thiers, L.Angiuli (Restonica)

4

Nan penze a chedde
c’ava petè mangià cra
la serpetedde.

Non pensa a quello
che mangerà domani
la lucertola.

No piensa en lo
que comerá mañana
la lagartija.

No pensa no que
ha de comer mañá
à lagartixa
.

Ùn pensa à ciò
chì manghjarà dumani
issa aciartula.

Ela nunca pensa
no comer de amanhã,
essa lagartixa.

Bihar zer jango
Ez zaio bururatzen
Sugandilari.

5

Chessa mendagne
nann’è ca n’orazzione
de facce o tiembe.

Questa montagna
non è che un’orazione
di faccia al tempo.

Esta montaña
no es sino una oración
de cara al tiempo.

Esta montaña
non é mais que un prego
de cara ao tempo.


Quista a muntagna
ùn hè ch’una prighera
di pettu à u tempu.

Tão alta montanha.
Apenas uma oração
diante do tempo.

Mendi gordin hau
Denboraren aurrean,
Otoitza da.